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Pasolini a Chiafura

Le riflessioni di Un Uomo Libero

Pasolini a Chiafura

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chiafuraun uomo liberopierpaolo pasolini Madrid - Rileggo sempre volentieri il brano nel quale Pier Paolo Pasolini descrive il suo viaggio a Chiafura*. Una discesa agli inferi della nostra storia, attraverso un purgatorio, fatto di cento bocche, nel quale si sono consumati il dramma quotidiano di un intero popolo e la vita di diverse generazioni.

Scicli è immaginata da Pasolini come un cupo girone dantesco, dunque, attraversato dal vento del peccato che implora dalla sua prosa icastica e sognante riscatto e resurrezione e mai più castigo e pena.

I colori smorti del paesaggio vivono, per la sua penna sapiente, come immagini scattate da una macchina fotografica e fissate in un vecchio dagherrotipo. Sfumandole fino all'esasperazione, il poeta stende, sulla tela del racconto, leggere pennellate per abbozzare un'idea consapevole di abbandono e di tristezza, forse la stessa essenza del lutto. In una solarità mediterranea, diluisce di proposito, fino a sbiadirle, le tinte per offrire al visitante e allo straniero l'incanto superbo di una sicilianità eterna, dominata non più dalla Storia ma dal mito e da quest'ultimo fissata nella tragica memoria del tempo attraverso lo spasimo e il grido dei vinti.

Gesuitico, nel significato più opprimente e tetro del termine, per Pasolini, è il paese con le sue vie e le sue piazze. Gesuitico è il duomo non certo distrutto da un terremoto bensì dall'incuria stessa degli uomini che volevano cancellare, abbattendolo, ogni ricordo del loro antico dolore. Gesuitico è lo stesso strazio che celano le pietre, il linguaggio dei mascheroni che vigilano i palazzotti antichi, il gracchiare di un altoparlante politico che, inquieto, gira in una piazza deserta, dove solo uomini si trascinano, intabarrati dentro abiti scuri, come lucertole rassegnate, perse sotto il sole.

Un'umanità dolente affiora, grazie alla potenza della sua prosa medianica, dagli anfratti di Chiafura, risuscitata come nel giorno del giudizio, per rappresentare in carne e ossa un nuovo dramma nei vicoli ciechi che un tempo furono, in effetti, sentieri tra tombe. Una moltitudine di fantasmi si anima, nel racconto, si lascia violare ancora nell'intimità più segreta, là dove i sogni morivano, assassinati dal bisogno, sotto le stelle delle gelide notti di gennaio o nelle afose vigilie delle albe di agosto. Perché giù, ai piedi della rocca, il paese viveva in un incantesimo strano, sospeso tra la gioia e il dolore, tra la meditazione di un glorioso passato e la consapevole decadenza di un malinconico presente avaro di speranza e di promesse. Scandivano il suo tempo, la noia e il suono di mille campane che ad una ad una hanno smesso di suonare negli anni per fare posto a un silenzio sempre più pesante, di morte.

E anche quando una canzone fendeva l'aria, non era per attutire un allegro tintinnio di sonagli o il sordo rumore degli zoccoli sul selciato sconnesso che portava lontano uomini e bestie per un misero tozzo di pane. Era invece un requiem, cantato per un popolo abbandonato dagli dei, che, per ciò, lentamente si lasciava morire.

 

In risposta alla denuncia del poeta, nacque il Villaggio Jungi. Un vero ghetto, frutto di un malinteso impegno civile e di una forzosa e spietata transumanza etnica.

Il paese intero conobbe l'emigrazione selvaggia verso un Nord ostile, malato e ricco: Torino, Milano, il Belgio, la Germania.

La memoria, lacerata, fu presto dimenticata con gli ultimi spicchi di sole dentro fragili valigie di cartone.

Chiafura ritornò a essere quello che era sempre stato, un cimitero di ricordi.

Anche Pasolini fu massacrato e la sua voce spenta.

Restano però le sue parole, scritte per noi, testimoni di un affetto sincero, eterno, indefettibile. Severe come lapidi, alte come un monumento.

 

 

 

 

*Antico quartiere rupestre di Scicli

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