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Un viaggio nel cuore della meravigliosa Sicilia Barocca

Il trappeto dello zucchero e la cannamele di Spaccaforno




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ImageFurono gli Arabi ad introdurre la canna da zucchero nei loro domini di Sicilia. Da una carta del re Guglielmo II, del 1176, sappiamo  che
essi, per produrre lo zucchero, costruirono trappeti chiamati “masara”

 

 

 

 

 

 

 

ImageChe provenisse dall’India (1) nessuno dubita, benché l’etimologia non lo riveli (canna mellis  = canna del miele, miele di canna). E che se ne
ricavasse lo zucchero è certo, dato che l’anonimo greco autore del
“Periplo del Mar Rosso” (I sec. d.C.) conosce il “meli to kalàminon to
legòmenon sàkkari” (“Il miele di canna chiamato Sàkkari” (2), cap.14).

Anche nell’antica Roma è attestata la conoscenza della canna da zucchero, (nome scientifico: “Sàccarum officinarum”): Isidoro di Siviglia (VI-VII
sec. d.C.) ci informa che “negli stagni dell’India nascono, si dice,
canne e calami, dalle cui radici si spreme un succo dolcissimo che
viene bevuto”. Cita, a conferma, i seguenti versi di Varrone (I sec.
a.C.): “La canna indiana non cresce a grande altezza: dalle sue tenaci
radici si estrae un succo, con cui non potrebbe contendere il dolce
miele” (“Etymologiae”, XVII, 7, 58).

Tuttavia, per la mancanza di materia prima, non ci fu un’industria dello zucchero né in Grecia né in Italia. Il miele fu l’unico dolcificante noto
all’antichità classica, apprezzato anche per il suo basso costo.
Furono gli Arabi ad introdurre la canna da zucchero nei loro domini di Sicilia
e di Spagna. Da una carta del re Guglielmo II, del 1176,  citata da
Rocco Pirri, sappiamo persino che essi, per produrre lo zucchero,
costruirono trappeti chiamati nella loro lingua “masara” (“Molendinum
unum ad molendas cannas mellis, quod saracine dicitur masara”: Sicilia
sacra, I - 454).

I Normanni continuarono la produzione. Lo storico Ugo Falcando (XII secolo) scrive nella prefazione alla sua “Epistula ad Petrum panormitanae ecclesiae
thesaurarium”: “Ti si presenterà una messe di canne stupende, che son
dette cannamelle dagli abitanti per la dolcezza del succo che
contengono. Tale succo, cotto diligentemente e moderatamente, si
trasforma in una specie di miele, ma, se viene cotto più perfettamente,
si condensa in zucchero”.

Così fu anche sotto gli Svevi. L’imperatore Federico II si preoccupò, nel 1239, di trovare operai ebrei, i più bravi in questo settore, per produrre “zucarum” e
tramandare i segreti di quest’arte, perché non scomparisse a Palermo
(3). Ma sembra che dopo la sua morte lo zucchero venisse dimenticato in
Sicilia, perché non se ne trova notizia prima degli anni 1320-1350 (4).
In questo periodo è già avvenuto il passaggio dal miele allo zucchero,
importato dall’Oriente, nella cucina delle classi elevate della
penisola, come attesta l’anonimo napoletano autore del “Liber de
coquina” (5) (Sec. XIV).

E’ ancora a Palermo che rinasce la coltivazione della cannamele e si moltiplicano i trappeti dello zucchero (ben 31 nel 1417), impinguando le casse sia dei
privati che dello Stato (6). Per tutto il Quattrocento lo zucchero,
assieme al grano, è il vero pilastro dell’economia siciliana.
Nonostante alcune crisi temporanee dovute all’arresto dei consumi (i
poveri non abbandoneranno mai il miele), allo sradicamento degli Ebrei
dalla Sicilia  e alla concorrenza di altri centri produttori (Malaga,
Madera, Africa occidentale) (7), lo zucchero siciliano domina i mercati.

Fu così che il netino Antonio Caruso, nuovo Signore di Spaccaforno (1453-59), decise di introdurre nel proprio feudo la coltivazione della
cannamele quale aveva visto a Palermo, ad Avola (anno 1443) e nella
natia Noto (anno 1447). Questo Tesoriere del Regno, sempre in moto tra
Napoli e la capitale siciliana, aveva davvero l’anima
dell’imprenditore, virtù non rara in quei tempi, ma che sembra
scomparsa dalla moderna Ispica. Egli non solo intensificò lo
sfruttamento delle saline della Marza e di Longarini,  ma creò lavoro
promuovendo sulla “Forza” quell’intensa attività edilizia che portò
all’erezione di case, torri, mura e castello, e di una chiesa ”sub
vocabulo Sancte Marie de Nunciata”.

Non potendo restare per la sua carica a  Spaccaforno, dove è costretto a lasciare la moglie Elvira Speciale, il figlio Nicola e le figlie
Margherita e Beatrice, sceglie persone capaci di amministrare il feudo:
il commerciante Nicola de Syracusis come Governatore della città e
socio nell’istituenda industria zuccheriera; Antonio de Urso come
”Segreto”; Pino de Voira come Castellano; il sacerdote Andrea Lo Monaco
come Ricevitore del grano ammassato, per la vendita, nelle fosse di
“Pantano secco” (contrade “Sicca suprema” e “Sicca pichula”) e della
“Mìucia”. Tutte persone di Spaccaforno,  come rivela un documento
dell’Archivio Statella  (8). Prima di partire, avvia la piantagione
della cannamele e affida il progetto del trappeto al socio, perché
provveda alla costruzione anticipandone le spese.

Dov’era ubicato il cannamelito di Spaccaforno col relativo trappeto? Secondo la testimonianza di Nicola de Nativo, il luogo era ”in territorio
Spaccafurni sutta Bambaluca”, toponimo oggi dimenticato. La
piantagione, comunque, si può localizzare nell’attuale contrada
“Cannamiddate”, (palese dialettizzazione di “Cannamellate”), attigua al
“Petraro” solcato dal torrente “Salvia”. Il trappeto doveva sorgere
qui, a meno che non si voglia optare per alcuna delle località solcate
dal rio Favara , dalla portata allora sufficiente a muovere i mulini.
(9). Il prezioso elemento era indispensabile all’irrigazione delle
piantine ed al funzionamento della “machina di l’aqua”, che sappiamo
facesse parte dell’impianto.

Nicola de Syracusis lo costruì in un anno che oscilla, secondo i vari testimoni citati nel suddetto documento, tra il 1453 ed il 1457: “…faceva
costruire il detto trappeto e interveniva nella costruzione del detto
trappeto, del cannamelito e della macina ad acqua e a trazione equina e
forniva il detto trappeto di scrufini e di viti (10) e fece costruire e
murare i forni e i fornelli con ogni altra struttura in muratura”;
inoltre “fece gli archi, il solaio per riporvi lo zucchero, il tetto
(cupirticzu), i tini, le scodelle, le forcelle e le porte del
trappeto”. (Testimonianza del “salineri” Nicola Sirundu). Nel pavimento
venne scavato un “fossu” ”grande come una caverna “ (Tommaso Riza).

Il trappeto  si presenta, dunque, come un edificio terraneo, con archi sorreggenti il tetto, dotato di una fossa per rifiuti (“gectatorium”) e
di un solaio come deposito dello zucchero. Possiamo presupporre anche
la presenza di un cortile, di un magazzino, di una stalla e di una
legnaia. Come si constata in altri trappeti cinquecenteschi (11),
dobbiamo immaginarcelo affollato di operai. Ci sono “incisores”
(“taglaturi”) che tagliano le canne, già sfrondate nei campi dai
“mundatores”, su vari banconi e, accanto, garzoni che spazzano la
paglia e arrotini (“admulatores”) che affilano i coltelli

Le canne tagliate e raccolte in ceste sono portate nelle due macine (una azionata dall’acqua, l’altra da un cavallo) per la triturazione, sotto
il controllo di un macinatore (“machinator”), che bada all’animale e
pulisce le macine ,assistito dai “paraturi”. Completata questa
operazione, la pasta ottenuta viene posta dagli “insaccaturi” in sacchi
di canapa,che vengono sistemati nel torchio e pressati come si fa con
le vinacce e con le olive. Si adopera ancora l’antico torchio romano a
palo (“prelum”), ma per lo più si usa il torchio a vite verticale in
legno di leccio,con le piastre inferiori e superiori (“scrufini”) di
quercia.

Il succo raccolto è travasato in grandi calderoni di rame, posti su diversi fornelli in mattone, dove il fuoco è alimentato da un “fucaloru”. Alla cottura presiede, invece, un
“soprastante” con altri garzoni, che tolgono la schiuma, grattano le
pareti con spatole e raschiatoi, versano acqua fredda per far risalire
le impurità, rimescolano il succo con tipici mestoloni (“forchelle”)
dopo avervi spruzzato latte di calce come sgrassante. Seguono altre
cotture particolari a cura di specialisti (“Sciruppaturi”).

Dopo, inizia la raffinazione affidata ad un altro, lo “zuccararius”. Lo sciroppo denso ora viene versato nelle “forme” (vasi  conici, detti
anche “graste”), poste con la punta in basso su altrettanti
“cantarelli”, dove gocciola lentamente purificandosi e raffreddandosi.
Nasce così lo ” zucchero nero “, passibile di ulteriori cotture e
purificazioni (fino a tre volte) secondo la qualità desiderata. Lo
zucchero bianco e finissimo è prerogativa degli “speziali”.
Naturalmente i costi di produzione sono elevati per l’eccessiva
manodopera (si contano fino a trenta operai), ma i profitti sono
ingentissimi.

ImageA Spaccaforno l’industria zuccheriera continuò anche dopo la morte di Antonio Caruso. Suo figlio Nicola, che gli succedette (1459-1475) e
completò l’opera da lui iniziata, designò nel suo testamento (del 5
dicembre 1474) il figlio Antonello anche come erede del trappeto dello
zucchero, raccomandandogli di affidarne l’esercizio a “li Iudei” (12) e
nominando il nobile avvocato Giovanni Grasso Procuratore della città e
dell’impresa della cannamele.

La sopravvivenza di questa attività è documentata anche per il Cinquecento in un atto del notaio modicano Simone Di Giacomo, datato 8 dicembre
1563 (13). Risulta che Ercole Statella, Signore di Spaccaforno
(1537-1560) e comandante del castello Ursino di Catania, affidò al
fratello Antonio la cura della baronia e del cannamelito di cui,
morendo, nominò unico erede il figlio Blasco (1560-1578). Questi,
all’inizio d’agosto del 1560, prende possesso del feudo visitandone le
terre, compresi i luoghi “vocatis di lu trappitu” (contrada ”Trappeto”
oggi scomparsa); ma alla fine del suddetto mese, si vede contestata
l’eredità dallo zio Antonio, il quale dimostra di essere stato
designato successore nel feudo da Isabella Caruso (14), madre sua e di
Ercole, il 10 dicembre 1551.

Naturalmente questo era illegale, in netta violazione delle norme feudali. Difatti, Antonio Statella rinunciò al processo (che avrebbe perso) in cambio di
dodicimila fiorini, reclamando a parte le spese sostenute da lui e dal
figlio Francesco nella gestione del cannamelito. Blasco accetta (atto
del 12 settembre 1562) e nomina il fratello Michele responsabile del
trappeto e del cannamelito con il succitato atto dell’8 dicembre 1563.
In esso si legge la seguente clausola: “Scelgano, tanto lo spettabile
don Blasco quanto suo fratello don Michele Statella, di tenersi la
suddetta azienda della cannamelle e per essa pagare tutte le spese di
piantagione in quel modo e in quella forma in cui esse spese furono
pagate da don Francesco al suddetto don Michele, in virtù del pubblico
contratto; oppure lasciare allo stesso don Antonio la suddetta azienda
per la raccolta prossima ventura della cannamelle del presente anno”.

Ovviamente fu preferita la prima soluzione: nell’atto rogato dal notaio modicano è  specificato che don Michele riceve dalla sorella Girolama
la somma di 100 onze e 24 tarì, che egli si impegna a versare allo zio
Antonio entro il 31 agosto dell’anno successivo. Il che sicuramente
avvenne.

Nonostante le crisi saltuarie,dunque, lo zucchero rendeva ancora moltissimo nel Cinquecento, a Spaccaforno e in tutta la Sicilia. Ne fa fede
l’accuratissimo Fazello, il quale elogiando la “canna ebosia detta oggi
cannamele”, descrive brevemente la tecnica di preparazione dello
zucchero, che vale la pena di rileggere: “Ei si piglia la canna e si
taglia in pezzetti piccoli, i quali stringendosi poi dentro allo
strettoio, mandan fuori il sugo, il quale si mette a cuocere e a
purgare in una caldaia al fuoco, ma essendo cotto mezzanamente diventa
liquido come un mele, e mettendosi poi in certi vasi di terra, vi si
lascia raffreddare dentro, e quivi diventa zucchero, ma chi lo vuole
perfettissimo e finissimo, lo fa di tre cotte,ricocendolo e
ripurgandolo al fuoco tre volte” (I, 49, trad. di Remigio Fiorentino,
1574).

Anche gli stranieri erano interessati all’industria siciliana: ai trappeti dell’isola, definiti “fucine di Vulcano”, e agli operai (“sì affumicati, sì lordi, sudici e arsicci,
che somigliano demoni, anziché uomini”) accenna il viaggiatore frate
domenicano Leandro Alberti nell’opera “Isole appartenenti all’Italia”
(Venezia 1567) (15).

La cucina rinascimentale sancisce per sempre il trionfo dello zucchero sul miele. “Il zuccaro – scrive Costanzo Felici (autore, nel 1569, dell’opera “Dell’insalata e
piante che in qualunque modo vengono per cibo del’homo”) (16) – fa
compagnia ad ogni altra cosa, o lo potria fare, se si suole dire per
proverbio che “il zuccaro non guasta mai menestra”. Ma non era più lo
zucchero siciliano a dominare in Italia, come nel Quattrocento. La
concorrenza, ora, era spietata: dominavano quello portoghese delle
Azzorre e delle Canarie, consumato a Genova e quello prodotto a
Venezia, che i veneziani usavano nella confetteria e nella pasticceria
e, più tardi, nel caffè. A partire dal 1580, quando il Portogallo fu
unito alla Spagna, incontrastato fu il dominio dello zucchero
brasiliano (17).

ImageE, tuttavia, per tutto il Seicento l’industria siciliana produce ed esporta ancora zucchero in Italia. Abbiamo la prova che ciò riguarda
anche Spaccaforno. Da un atto del notaio modicano Michele Cannata  (18)
(anni 1603-1604) siamo informati che il Marchese Francesco III Statella
(1578-1626), figlio di quel Blasco sopra menzionato, ottiene un
prestito di 900 onze dall’arrendatore genovese Alessandro Cigala, dando
in garanzia lo zucchero da lui prodotto. Una partita di zucchero, del
valore di 596 onze, viene infatti da lui ceduta al genero del Cigala,
che la vende a Napoli.

La stessa fortuna non toccò, invece, al cannamelito impiantato dal Conte di Modica a Boscorotondo, presso Vittoria, verso il 1640, ben presto abbandonato.
Ma altrove, in Sicilia, la produzione di zucchero andava bene,
considerando che nel 1651 Filippo IV Re di Spagna, Sicilia etc. 
(1621-65)  ne aumentò i dazi sull’esportazione, il che dovette
scoraggiare i produttori.

Sta di fatto che nel Settecento non esiste più in Sicilia un’industria zuccheriera. Si può dare ragione a G. Petino (19) che imputa il fenomeno a fattori
climatici e commerciali: lo zucchero siciliano anche per gli alti costi
non può competere con quello di provenienza americana. Di conseguenza,
non essendo più redditizia, la coltivazione della cannamele venne
abbandonata ed i trappeti morirono (20). Era la fine di un’epoca.

Anche a Spaccaforno si sarebbe perduto il ricordo dell’industria zuccheriera, se non ci fosse ancora la contrada “Cannamiddate” a farcene fede.
Altrove c’è qualcosa che ricorda ancora quella fortunata stagione: il
Comune di Trappeto (prov.di Palermo) (“Trappetum cannamellarum”, XVII
sec.) e il cognome “Cannamela”, oggi scomparso ad Ispica dove qualcuno
lo onorò in passato: il notaio Giuseppe Cannamela, attivo a Spaccaforno
tra il 1660 e il 1677 (21).

Luigi Blanco

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