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Il senso del Giorno della Memoria




Renzo Gattegna, Presidente Unione Comunità Ebraiche Italiane

Sessantacinque anni fa, il 27 gennaio 1945, venivano aperti i cancelli di Auschwitz. Le immagini che apparvero agli occhi dei soldati sovietici che liberarono il campo, sono impresse nella nostra memoria
collettiva. Ad Auschwitz, come negli innumerevoli altri campi di concentramento
e di sterminio creati dalla Germania nazista, erano stati commessi crimini di incredibile
efferatezza. Tali crimini non furono commessi solo contro il popolo ebraico e gli
altri popoli e categorie oppressi, ma contro tutta l’umanità, segnando una
sorta di punto di non ritorno nella Storia.

L’uomo contemporaneo, con il suo grande bagaglio di
conoscenze, nel cuore del continente più civile e avanzato, era caduto in un baratro.
Aveva utilizzato il suo sapere per scopi criminali, tramutando quelle conquiste
scientifiche e tecnologiche, di cui l’Europa era allora protagonista indiscussa,
in strumenti per annichilire e distruggere intere popolazioni, primi fra tutti
gli ebrei d’Europa.

Da quel trauma l’Europa e il mondo intero si risvegliarono
estremamente scossi. Si domandarono come era stato possibile che

la Shoah fosse avvenuta. E,
soprattutto, quali comportamenti e azioni mettere in atto per scongiurare che accadesse
di nuovo.

Dalla consapevolezza dei crimini di cui il nazismo si era
macchiato nacque nel 1948

la Dichiarazione universale dei diritti umani, promulgata dalle Nazioni Unite allo scopo di riconoscere a livello
internazionale i diritti inalienabili di tutti gli uomini in ogni nazione.

La consapevolezza di ciò che era stato Auschwitz fu tra gli
elementi fondamentali per la costruzione, identitaria prima ancora che giuridica, della futura Europa unita.

Scriveva il filosofo Theodor Adorno che dopo Auschwitz
sarebbe stato “impossibile scrivere poesie”, intendendo rendere l’idea di quali
implicazioni radicali comportava assumersene la responsabilità, negli anni
della ricostruzione e della nascita dell’Europa unita.

Era indispensabile stabilire con esattezza ciò che l’Europa non sarebbe stata. Alle radici dell’impostazione
ideale dell’attuale Unione Europea c’è il rispetto per la dignità umana e il rigetto
per ciò che era accaduto, sia prima che durante la guerra, a causa di idee razziste
e liberticide. Auschwitz è la negazione dei principi ispiratori dell’Europa
coesa, economicamente, socialmente e culturalmente avanzata che conosciamo
oggi.

Il 27 gennaio 2010 il Giorno della Memoria si celebra in
Italia per la decima volta. Dieci anni sono passati da quando fu chiesto all’Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane di partecipare all’attuazione delle iniziative,
promosse dalle istituzioni dello Stato italiano e in particolare dal Ministero
dell’Istruzione, che avrebbero caratterizzato lo svolgimento di questa giornata.
Oggi il Giorno della Memoria è diventato un’occasione fondamentale, per le
scuole, di formare tanti giovani tramite una importante attività didattica e di
ricerca.

Da allora l’ebraismo italiano si è a più riprese interrogato
sul modo di proporre una riflessione che non fosse svuotata dei suoi
significati più profondi, riducendosi a semplice celebrazione. Al di là delle giuste,
necessarie parole su Shoah e Memoria, crediamo infatti che occorra cercare di
perpetuare il senso vero di questo giorno.

Molti sono stati in questi anni gli studi, gli articoli, le
riflessioni, le pubblicazioni di studiosi e intellettuali che hanno tentato di
definire e ridefinire costantemente il senso della Memoria.

Esiste infatti una problematica della relazione tra Storia e
Memoria.

La Shoah
è ormai consegnata ai libri di Storia, al pari di altri avvenimenti del passato.
Pochi testimoni sono rimasti a raccontarci la loro esperienza. Si potrebbe ipotizzare
una Memoria cristallizzata nei libri, come un evento importante ma lontano nel
tempo, da studiare al pari di qualsiasi altro capitolo di un libro scolastico, con
il rischio di rendere distante il significato e la ragione vera per cui il
Giorno della Memoria è stato istituito per legge.

L’umanità esige che ciò che è avvenuto non accada più, in
nessun luogo e in nessun tempo. E’ di enorme importanza che le nuove e future
generazioni facciano proprio questo insegnamento nel modo più vivo e
partecipato possibile, stimolando il dibattito, le domande, i “perché”
indispensabili per la comprensione di quei tragici eventi.

Scriveva

la filosofa Hannah Arendt,
che il male non ha né profondità, né una
dimensione demoniaca. Può ricoprire il mondo intero e devastarlo, precisamente
perché si diffonde come un fungo sulla sua superficie. E’ una sfida al
pensiero, perché il pensiero vuole andare in fondo, tenta di andare alle radici
delle cose, e nel momento che s’interessa al male viene frustrato, perché non
c’è nulla. Questa è

la
banalità. Solo il Bene ha profondità, e può essere radicale.

La filosofa che forse più in profondità ha studiato le
aberrazioni del nazismo, coniando quella ormai famosa espressione, “la banalità
del male”, riferita a uno dei principali esecutori della Shoah, dà una
definizione di tetra neutralità e ignavia a chi non pensa, a chi non riflette,
a chi non ha idee proprie, a chi non dà valore e giudizio alle proprie azioni e
alle loro conseguenze.

La Arendt collega il “bene” direttamente al
pensiero, fonte vitale di comprensione del mondo.

Favorendo noi una riflessione vivace nei ragazzi, renderemo
forse il servizio migliore a questo Giorno che, per essere vissuto nel modo più
autentico, necessita di un pensiero non statico, non nozionistico.

Occorre fornire alle nuove generazione gli strumenti, anche empirici,
per riflettere su cosa l’umanità è stata in grado di fare, perché non accada
mai più.

Questo, forse, è il senso più vero del Giorno della Memoria,
ed è un bene prezioso per tutti.

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