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Un viaggio nel cuore della meravigliosa Sicilia Barocca

Parlare dell’epopea risorgimentale e del ruolo che la Sicilia vi ebbe, è una impresa molto ardua e richiederebbe un impegno lungo e molto complesso , anzi si potrebbero scrivere grossi volumi, come in effetti se ne sono scritti. Noi non siamo storici e quindi  ci limiteremo e parlare di questo evento come è stato visto nella nostra letteratura e dai nostri maggiori scrittori.

Intanto dobbiamo subito dire che il Rirgimento si battè per la unificazione di un’Italia che già esisteva come entità geografica e come elemento culturale e antropologico.

L’Italia certamente è stata definita dalla natura, fin dalla creazione del mondo perché i suoi confini sono naturali: per tre parti la delimita il mare e per una parte viene delimitata da una corona montagnosa che va dalla Liguria alle venezie e quindi nessun problema è mai esistito per definire le sue frontiere, se non quello di cacciare via gli occupanti abusivi.

E poi Roma l’aveva fatta una, con il suo grande impero e dopo la caduta dell’impero romano è stata tenuta insieme dalla lingua e dalla letteratura.. Dante Alighieri nel “De Monarchia” auspicava un IMPERO universale di cui l’ITALIA dovesse essere il centro culturale e politico, il giardino dell’impero.

Anche Petrarca perorava una unità italiana indipendente dalla Chiesa e ispirata al modello imperiale romano.

E  poi dobbiamo dire che la grande letteratura del 1200, del 1300, il fenomeno tutto italiano del Rinascimento, la stessa universalità della Chiesa romana (Chiesa che ha creato grandi ostacoli all’unità territoriale del paese), hanno contribuito a tenere alto il concetto di italianità che non è mai venuto meno nelle coscienze degli italiani se non in una rozza formazione politica di casa nostra che oggi tiene in pugno o in ostaggio saldamente il paese.

Quindi il problerma era quello di spazzare via gli staterelli, i ducati, le monarchie per creare una entità unitaria. All’inizio dell’800 vi era riuscito, in parte, Napoleone che si proclamò Re d’Italia.

I fermenti unitari sono molto antichi in Italia, ma nell’ottocento si fecero impellenti allorchè la nuova borghesia  emergente aveva la necessità di avere meno frontiere per poter commerciare liberamente i propri  prodotti ed entrare in contatto con gli stati nazionali europei.

Già nel 1948 i siciliani cacciarono via i Borboni e inaugurarono uno stato libero e autonomo, ripristinando il parlamento regionale che era il più antico del mondo perché risaliva al 1130. Ma la rivolta fu  sconfitta nel 1849 dalla reazione monarchica, con grande dramma personale di tanti patrioti che dovettero scappare via dalla Sicilia e morire in terre lontane come Malta o Londra.

Il nonno di Pirandello Ricci Gramitto fu uno di quelli che dovette fuggire a Malta e lo stesso dovette fare      Francesco Crispi che ebbe un ruolo di primo piano nella tenzone risorgimentale della Sicilia e del’Italia.  Ma la battaglia del ’48 servì  a formare le coscienze di una schiera importante di patrioti che fecero fermentare tra le popolazioni l’anelito di unità, di libertà e di giustizia sociale.  Molte regioni d’Italia passarono al Piemonte o attraverso le cosiddette guerre di indipendenza, o attraverso semplici annessioni, con poca partecipazione popolare, mentre i n Sicilia ci fu un lungo periodo di incubazione, di fermenti, di lotte che preparò la gente a essere protagonista del risorgimento.

Nessuno può pensare che mille avventurieri sbarcati a Marsala e venuti da terre lontane avessero potuto sconfiggere un esercito regolare e ben attrezzato se non ci fosse stata la partecipazione dei siciliani che accolsero Garibaldi come un eroe e ne fecero un mito.

Indubbiamente Garibaldi fu favorito da appoggi stranieri, dalla potenza della Massoneria, ma la sua vittorria fu possibile per le defezioni che si verificarono nell’esercito borbonico dovute all’anelito di unità e di libertà che scuoteva anche una parte della nobiltà siciliana e napoletana che ha compreso in tempo che il processo unitario era irreversibile e per l’apporto dei siculi picciotti che, in massa,  indossarono le camice rosse dei garibaldini per l’unità del paese, per cacciare via i Borboni, per avere le terrre che erano appannaggio dei baroni e della chiesa.

I siciliani oltre alla battaglia per l’unità d’Italia sostennero la lotta per migliorare le loro condizioni di vita che erano di miseria, e di sottomissione a una casta nobiliare inetta e incapace di capire il nuovo che si muoveva nell’Europa che  aveva vissuto l’era della prima industrializzazione già alla fine del settecento.

I nobili siciliani che andavano a svernare a Londra o a Parigi si fecero incantare solamente dalle donnine e dalla vita mondana e non colsero il nuovo che avanzava e non  cercarono di portare in Sicilia i nuovi fermenti economici che la rivoluzione liberale aveva già imposto in Inghilterra e altrove.

Se qualche movimento  imprenditoriale ci fu nella nostra terra la si dovette a forze venute dal di fuori come i Witaker  e i Florio. Mancò in Sicilia una classe borghese capace di trasformare la nostra economia e di questo noi parliamo molto a lungo nel  libro “Dalla parte di Sedara?” che ognuno di voi può consultare e scaricare dal  sito www.gaspareagnello .it .

Per conoscere meglio questa tematica, che tratteremo ancora più avanti, basta leggere Il Gattopardo e più specificatamente il discorso che il Principe fa a Chvalley.

La battaglia per mandare via i Borboni dalla Sicilia non fu una passeggiata, ma fu una lotta dura e impari che infiammò la Sicilia, i siciliani, le donne di Sicilia che, anche esse, ebbero un ruolo importante nel nostro  risorgimento.

Lo scrittore di Sambuca Navarro della Miraglia andò incontro alle truppe garibaldine e Garibaldi diventò oggetto di tante poesie popolari. Luigi Capuana scrisse una leggenda drammatica in tre canti initolata “Garibaldi”, improntata al clima romantico di quel tempo:

Meravigliate grideran le genti

Il nome tuo, per cui balzar falangi

Vedran di prodi ad arrischiate imprese.

Il tuo model  Cristo sarà, di regni

Novelli  Precursor;  già ti saluta

MESSO DI DIO quest’universa terra!

Carducci, mentre era in corso la spedizione garibaldina in Sicilia nell’Ode “Sicilia e Rivoluzione” scrive di Garibaldi:

….che cavalca glorioso

Intra i lampi del ferro e del foco,

bello come nel ciel procelloso

il sereno Orione compare.

Il popolo siciliano, in questa vicenda dimostrò tutta la sua grandezza e diede a Garibaldi tutto quello che potè dare e cioè i suoi figli migliori, nella speranza che finalmente si potese aprire una nuova prospettiva di giustizia.

Garibaldi lanciò un appello ai siciliani, promise la divisione delle terre e a Bronte i contadini interpretarono alla lettera il proclama garibaldino. Cacciarono via i servi dei borboni e, non potendo mettere a morte il loro re come fecero i francesi con Luigi XVI, portarono a morte molti nobili e proprietari terrieri e diedero l’assalto ai feudi.

E lì i siciliani ebbero la prima grande e amara delusione perché Garibaldi, per fare un favore agli inglesi, suoi alleati, che a Bronte avevano una ducea, mandò una colonna di garibaldini al comando di Nino Bixio che si concluse con la fuciliazione di alcuni contadini.

E il carbonaio, della novella. “Liberta’” di Verga, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: – Dove mi conducete? In galera? Oh perché?  Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che  c’era la libertà!…

E a proposito dei fatti di Bronte Leonardo Sciascia ne “La corda pazza” contesta alcune posizioni di Verga, e dà il giusto rilievo all’avvocato Lombardo patriota puro, condannato a morte, di cui Verga non fa cenno e ripropone l’arringa dell difesa dei contadini patrioti portata avanti dall’avv. Michele Tenerelli Contessa. L’avvocato sostenne che il programma di Marsala chiamava il popolo ad insorgere colle armi in pugno, contro il comune nemico. Or bene chi era questo nemico?  Il Borbone. Ma desso era fuori, ne poteva cadere sotto i nostri artigli per poterne fare un altro Luigi XVI; gli inimici erano tutti coloro che con qual si sia mezzo contrastassero il trionfo dela rivoluzione.

Ma la rivoluzione non poteva essere solo di natura nazionale ovvero unitaria: “fu mestieri farsi ancora democratica, allorchè il Dittatore ordinò la divisione dlle terre comunali…Tutti coloro che ostacolavano la l’attuazione di questi principi, tutti erano intrinsecamente dichiarati  rei di lesa nazionalità: poiché che altro faceva la rivoluzione se non tradurre in atto quelle giuste idee, quei giusti desiderii che non avevano voluto concretare regolarmente i governi abbattuti ?

Questa fu la tesi sostenuta dalla difesa per difendere i cittadini di Bronte che si erano lasciati andare a una dura strage per far valere i loro diritti e per vendicarsi di secoli di oprressione.

Questa tesi viene contestata dal Professore Giarrizzo che sostiene che  l’intervento di  Bixio a Bronte fu dovuto all’eccesso dei crispini che si erano impossessati del potere per mettere in sella i vecchi dirigenti della rivoluzione del 1848 e del resto qualche dubbio di questo genere fu sollevato circa l’uccisione in battaglia di Rosolino Pilo avvenuta a Monreale.

In ogni caso ci troviamo di fronte a un popolo, il  popolo siciliano che  da secoli aspettava la terra e che invece si vide dare piombo amico.

Questa fu la prima e più  drammatica deluisione post risorgimentale dei siciliani. Comunque l’azione garibaldina andò avanti, la Sicilia fu liberata  e i grandi personaggi siciliani che si erano formati nella lunga cospirazione capirono subito che la semplice annessione della Sicilia al Regno di Piemonte sarebbe stata una iattura.

Il Pro Dittatore Morandini, toscano, teorizza una unità federale e forma un consiglio straordinario di Stato di 35 membri tra i quali ci sono Gregorio Ugdulena, Mariano stabile, Emerico Amari, Andrea Graneri, Isidoro La Lumia, Vito D’Ondes ed altri. Tra questi probabilmente ci sarà stato il vostro Saverio Friscia.

Morandini convoca il Parlamento Siciliano il 31 ottobre, invece per lo stesso giorno viene convocato il plebiscito.  Il Parlamento Siciliano non fu più convocato, Morandini fu messo da parte, Garibaldi fu fermato a Teano e la Sicilia fu annessa sic et simpliciter al Regno piemontese.

A Teano, a nostro avviso, si infranse il sogno di riscatto sociale della Sicilia e del mezzogiorno d’Italia.

Il nome di Garibaldi turbò un poco il Principe di Salina, scrive Tomasi di Lampedusa. “Quell’avventuriero tutto capelli e barba era un mazziniano puro. Avrebbe combinato dei guai. ‘Ma se il galantuomo lo ha fatto venire quaggiù vuol dire che è sicuro di lui. Lo imbriglieranno”.

Il Plebiscito, con i suoi dati falsati, con il voto di Don Ciccio Tumeo fatto sparire, la unanimità fittizia, certificano la morte della buonafede, la storpiatura delle anime. E’ un’occasione mancata, centomila no non avrebbero cambiato nulla ma lo stato unitario sarebbe nato nella lealtà.

E qui inizia il dramma della Sicilia e  la recente pubblicazione del libro “Terroni” di PINO APRILE  leva il velo che ha nascosto quanto di grave e di male è stato fatto alla Sicilia e al mezzogiorno. Pino Aprile afferma, assieme a tutta una letteratura di ispirazione borbonica e che ha fondamenta solide nella storia e nella documentazione, che i garibaldini operarono saccheggi, rapine, svuotarone le casse della Sicilia e della banche siciliane. Con il 1860 si fermò, secondo questa letteratura, lo sviluppo del mezzogiorno che si stava avviando; vennero fermate tutte le attività produttive: nel meridione vi erano già alcune acciairie, vi erano tantissime filande, vi era la terza flotta marinara d’Europa, si era inaugurata la prima linea ferata d’Italia, insomma una certa economia incominciava a muoversi. Mentre questo avveniva, con l’unità, vennero imposte le leggi piemontesi, vennero rubate le braccia dei giovani contadini che furono obbligati ad una lunga leva militare di quattro anni, si imposero nuovi balzelli quali la tassa sul macinato e nacque quindi il fenomeno del brigantaggio perché molti giovani delusi, da Garibaldi e non volendo sottoporsi alla lunga leva militare, si diedero alla macchia.

De Roberto nel suo meraviglioso romanzo “I Vicerè”, fa dire ai contadini in fuga per il colera: “Allora perché s’era fatta la rivoluzione? Per vedere circolare pezzi di carta sporca, invece delle belle  monete d’oro e d’argento che almeno ricreavano la vista e l’udito, sotto l’altro governo? O per pagare la ricchezza mobile e la tassa di successione, inaudute invenzioni diaboliche dei nuovi ladri del Parlamento? Senza contare la leva, la più bella gioventù strappata alle famiglie, perita nella guerra, quando la Sicilia era stata sempre esente, per antico privilegio dal tributo militare? Eran dunque questi i vantaggi ricavati dall’Italia unita?”

Dal 1861 al 1871 si calcola che la guerra civile, che si sviluppò nel mezzogiorno, causò circa un milione di vittime. Ed a tal proposito vi rimandiamo alla lettura del libro “Terroni” di Pino Aprile.

La realtà è stata che i siciliani pensavano che la venuta di Garibaldi dovesse cambiare il loro destino ma così’ non fu.

Don Fabrizio, in visita al Re di Napoli si avvide che la monarchia napoletana aveva i segni della morte e si chiedeva chi fosse destinato a succedergli. “Il Piemontese, il cosidetto galantuomo che faceva tanto chiasso nella sua piccola capitale fuori di mano? Non sarebbe stato lo stesso? Dialetto torinese invece che napoletano e basta”.

E poi bisognava essere fedele al Re, ma a quale Re? A uno qualsiasi e bisogna andare con i rivoluzionari che, im fondo, vogliono portare un altro RE; e quindi il nipote del Principe di Salina, Tancredi dice: “ Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga com’è bisogna che tutto cambi”.

Gli  Uzeda afermano: “Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri…”

E se Tancredi sposa la bella Angelica, la nipote di Peppe Merda, per impossessarsi delle ricchezze del nuovo arricchito Sedara, Lucrezia degli Uzeda sposa il liberale Benedetto Giuliente, ovviamente  in  quella casa c’è chi fa il rivoluzionario e chi il borbonico così in ogni caso si possono trovare bene.

Ma il borghese Benedetto Giuliente resterà sempre un “aspirante”, può al massimo diventare Sindaco ma mai deputato perché il deputato deve essere un nobile e sarà l’On. Consalvo il Duca di Orugua.

“Io mi rammento che nel sessantuno, quando lo zio Duca fu eletto per la priam volta deputato mio padre mi disse: ‘Vedi?  quando c’erano i Vicerè, gli Uzeda erano Vicerè, ora che abbiamo i deputati, lo zio va in Parlamento….Un tempo la potenza della nostra famiglia veniva dai re; ora viene dal popolo…La differenza è più di nome che di fatto…Certo dipendere dalla canaglia non è piacevole; ma neppure molti di quei sovrani erano stinchi di santo…Il nostro dovere, invece di sprezzare le nuove leggi, mi pare quello di servircene!…”

A queste considerazioni di De Roberto, fanno da contraccanto le considerazioni di Pirandello ne “I vecchi e i giovani”.

“E quale rovinio era sopravvenuto in Sicilia di tutte le illusioni, di tutta la fervida fede, con cui s’era accesa alla rivolta! Povera isola, trattata come terra di conquista! Poveri isolani, trattati come barbari che bisogna incivilire! Ed eran calati i Continentali a incivilirli: calate le soldatesche nuove, quella colonna infame comandata da un rinnegato, l’Ungherese colonnello Eberhardt, venuto per la prima volta in Sicilia  con Garibaldi e poi tra i fucilatori di Lui ad Aspromonte, e quell’altro tenentino savojardo Dupuy, l’incendiatore; calati tutti gli scarti della burocrazia; e liti e duelli e scene selvagge; e la prefettura del Medici, e i tribunali militari, e i furti, gli assassinii, le grassazioni, orditi ed eseguiti dalla nuova polizia in nome del Real Governo; e falsificazioni sottrazioni di documenti e processi politici ignominiosi: tutto il primo governo della  Destra parlamentare! E poi era venuta la Sinistra al potere, e aveva cominciato anch’essa con provvedimenti eccezionali per la Sicilia; e usurpazioni e truffe e concussioni e favori scandalosi e scandaloso sperpero del denaro pubblico; prefetti, delegati, magistrati messi a servizio dei deputati ministeriali, e clientele spudorate e brogli elettorali; spese pazze, cortigianerie degradanti; l’oppressione dei vinti e dei lavoratori, assistita e protetta dalla legge, e assicurata l’impunità agli oppressori….”

E a tal proposito De Roberto fa dire  all’On Consalvo: “In verità, aveva ragione Salomone quando diceva che non c’è nulla di nuovo sotto il sole! Tutti si lagnano della corruzione presente e negano fiducia al sistema elettorale perché i voti si comprano. Ma sa vostra eccellenza cosa narra Svetonio celebre scrittore dell’antichità? Narra che Augusto, nei giorni di comizi, distribuiva mille sesterzi a testa alle tribù di cui faceva parte, perché non prendessero nulla dai candidati!…”

“…. La storia è una monotona ripetizione; gli uomini sono stati, sono e saranno sempre gli stessi. Le condizioni esteriori mutano; certo tra la Sicilia di prima del Sessanta, ancora quasi feudale, e questa d’ oggi pare ci sia un abisso; ma la differenza è tutta esteriore…”

Il Principe di Salina capisce,però, che una certa rivoluzione borghese avanza e che la vecchia nobiltà andava verso il suo inarrestabile declino: “la rivoluzione borghese che saliva le sue scale nel frack di Don Calogero, la bellezza di Angelica che poneva in ombra la grazia contegnosa della sua Concetta”….”non è vero che nulla era mutato; Don Calogero ricco quanto lui! Ma queste cose, in fondo, erano previste, erano il prezzo da pagare…”

L’annunzio al Principe che Don Calogero stava salendo le sue scale in Frack gli fece un effetto maggiore del bollettino dello sbarco a Marsala e questo perché Garibaldi veniva a sostituire un Re con un altro Re mentre la rivoluzione borghese, incarnata in Sicilia dai vari Sedara, metteva in forse la ricchezza e l’esistenza della vecchia nobiltà.

Saranno le iene e gli sciacalli a sostituire i gattopardi ma la storia va avanti e non concede sconti a nessuno.

E a questo punto bisognerebbe leggere tutto il discorso che il Principe di Salina rivolge a Chevalley che gli propone di diventare senatore del Regno. Questo discorso è un monumento storico e letterario perché vi si rispecchia il carattere dei siciliani, il loro sonno, la loro abulia, ma anche la loro storia di duemila anni di occupazioni straniere ch hanno impedito che in Sicilia si creasse  una vera e propria classe borghese come si è potuta formare nel nord dell’Italia dove si è avuta la civiltà dei comuni, le signorie, il Rinascimento, gli effetti della Rivoluzione Francese. Il Principe capisce che la sua classe è finita e propone di dare il seggio di senatore al nuovo ricco a Sedara che è il nuovo arrampicatore, un faccendiere  che  non dà speranza di miglioramento. E i frutti dell’avvento dei Sedara è ancora sotto gli occhi di tutti noi.

Purtroppo il sogno dei siciliani muore certamente per colpa di una occupazione straniera quale si è rivelata l’occupazione piemontese, ma un poco anche per il trasformismo e l’ascarismo dei siciliani che trapela dalle opere letterarie che abbiamo citato e cioè da “I Vicerè” di De Roberto, da “ I vecchi e i giovani” di Pirandello, da “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa:

Il sogno dei Siciliani, secondo Pirandello, muore a Favara dove  il patriota Mauro Mortara  viene ucciso dalle truppe regie.

Mauro Mortara aveva servito da sempre don Cosmo a Valsania e lì aveva custodito le memorie garibaldine e risorgimentali in un salone della villa.

Ma ormai i giovani avevano profanato il santuario di Mortara il quale decise di andare via verso Favara dove un nipote aveva un podere. A settantotto anni Mortara si mette le medaglie al petto, prende il suo fucile e tutte le sue armi e si avvia verso Favara.
Lungo la stra parlava da solo:

“Che m’importa? Io…Io…la Sicilia…oh Marasantissima…vi dico la Sicilia…Se non era per la Sicilia…Se la Sicilia non voleva…La Sicilia si mosse e disse all’Italia: eccomi qua! Vengo a te! Muoviti tu dal Piemonte col tuo Re, io vengo di qua con Garibaldi, e tutti e due ci uniremo a Roma! Oh Marasantissima, lo so: Aspromonte, ragione di Stato, lo so! Ma la Sicilia voleva far prima, di qua…sempre la Sicilia, che non si lascia disonorare, è qua con me!….”

Ma mentre cammina verso Favara “ dal cantoniere di guardia ebbe notizia che, nonostante la proclamazione dello stato d’assedio, alla Favara tutti i soci del Fascio disciolto, nelle prime ore della sera, s’erano dati convegno nella piazza e avevano assaltato e incendiato il municipio, il casino dei nobili, i casotti del dazio, e che gli incendii e le sommosse duravano ancora e già c’erano parecchi morti e molti feriti.

‘Ah sì ? Ah sì’ fremette Mauro Mortara. ‘Ancora?’ e si svincolò dalle braccia di quel cantoniere che voleva trattenerlo, vedendolo così armato, per salvarlo dal rischio a cui si esponeva d’essere catturato da quei soldati.

“Io dai soldati d’Italia?”

E corse per unirsi a loro”.

Nella mischia furente Mauro Mortara cadde ucciso, assieme ad altri quattro, dal piombo dei  soldati italiani a cui lui si era unito per difendere ancora una volta la Patria.

Un bisogno strano, invincibile, obbligò il capitano a dare subito ai suoi soldati un comando qualunque, pur che fosse. Quei cinque corpi rimasti là, traboccanti sconciamente, in una orrenda immobilità, su la motriglia della piazza striata dell’impeto della fuga, erano alla vista d’una gravezza insopportabile. E un furiere e un caporale, al comando del capitano, si mossero sbigottiti per la piazza e si accostarono al primo di quei cinque cadaveri.

Il furiere si chinò e vide ch’esso, caduto con la faccia a terra, era armato come un brigante. Gli tolse il fucile dalla spalla, levando il braccio, lo mostrò al capitano; poi diede quel fucile al caporale, e si chinò di nuovo sul cadavere  per prendergli dalla cintola prima una e poi l’altra pistola, che mostrò ugualmente al capitano. Allora questi,  incuriosito, sebbene avesse ancora un forte tremito a una gamba e temesse che i soldati se ne potessero accorgere, si apprestò anche lui a quel cadavere, e ordinò che lo rimovessero un poco per vederlo in faccia. Rimosso, quel cadavere mostrò sul petto insanguinato quattro medaglie.

I tre, allora, rimasero a guardarsi negli occhi, stupiti e sgomenti.

Chi avevano ucciso?

Noi rispondiamo che i soldati italiani con Mortara hanno ucciso la speranza risorgimentale e con gli altri quattro cadaveri hanno ucciso i sogni dei siciliani che, uniti nei fasci dei lavoratori, chiedevano condizioni di vita più umane.

Così Pirandello.

Ma noi, consci di quanto aveva detto Mazzini: “Se si muove la Sicilia, si fa l’unità d’Italia”, vogliamo continuare il nostro discorso affermando che il determinante contributo dato dai siciliani all’unità nazionale non finì lì ma continuò nella prima guerra mondiale con la quale si completò l’unità degli italiani.

Migliaia di siciliani furono chiamati alle armi e andarono a morire nei monti veneti, tra i contrafforti dell’altopiano di Asiago , sul Piave, sul ponte di Bassano. Le piazze siciliane sono piene di monumenti ai caduti con liste lunghissime di giovani che sacrificarono la loro vita per l’Italia. Una generazione intera fu decimata e distrutta psicologicamente. Il capitano Filippo Rubè, del libro di Giuseppe Antonio Borgese, ne è testimonianza viva essendo rimasto scosso dalla terribile guerra fino alla follia, Vincenzo Rabito,  il soldato di Chiramonte Gulfi, è grande testimone di quella lunga tragedia che visse per tutti i quattro anni come zappatore e che descrisse con drammatica maestria nel suo grande libro “Terra matta” pubblicato da Einauidi.

Questa letteratura ci porta a considerare la delusione dei siciliani che speravano che l’unità della Sicilia all’Italia, avesse potuto cambiare la situazione economica della regione e di tutto il mezzogiorno.

Non è stato così perché dallo sbarco di Garibaldi la Sicilia non trasse alcun profitto anzi, probabilmente o quasi certamente, le condizioni economiche peggiorarono perché non venne concessa l’autonomia che avevano invocato Morandini,Ugdulena, Mariano Stabile, Emerico Amari, Isidoro La Lumia, Vito D’Ondes e Saverio Friscia che, a quanto pare, si è recato in Calabria per parlare con Garibaldi e chiedergli che la Sicilia avesse la sua autonomia con un parlamento regionale.

I nostri patrioti non furono ascoltati, anzi furano  emarginati e per la Sicilia inizò un calvario che vide un esodo biblico verso terre lontanissime quali le americhe, quella buona e quella babba, l’Australia, il nord Europa. Dai tredici a venti milioni di meridionali furono costretti ad emigrare. L’emorraggia delle forze migliori del mezzoggiorno non si è mai fermata. E’ continuata durante il periodo del boom economico verso le regioni del nord che avevano bisogno di braccia per le lolro industrie, continua oggi con l’emigrazione intellettuale che impoverisce la nostra terra e toglie ogni speranza di riscatto.

Lo Stato non ha fatto per intero il suo dovere nei confronti del sud e non lo ha risarcito di tutto quello che è stato depredato.

Dobbiamo dire anche che ci sono responsabilità locali non di poco conto.

La mafia, la corruzione, l’ascarismo politico hanno contribuito acchè la Sicilia e il mezzogiorno non trovassero la via del riscatto sociale.

Ma pur tuttavia dobbiamo dire che in Sicilia non è mai venuto meno l’anelito unitario e non si è mai spento il mito di Garibaldi o Canibardi, come lo chiamavano i popolani.

Noi tutti ci rendiamo conto che il processo unitario è irreversibile e che non avrebbe senso una separazione della Sicilia dall’Italia.

Il fenomeno del separatismo fu una parentesi molto breve ma molto amara perché si appoggiò alla mafia e causò tanti guasti che si ripercuotono ancora su di noi.

Sappiamo che l’indipendenza della Sicilia porterebbe a una repubblica che potrebbe essere guidata da Riina, che, per vivere, dovrebbe aprire una casa di gioco in ogni provincia e una casa di tolleranza in ogni paese. Con conseguenze che tutti possono comprendere.

I siciliani si sentono italiani, sanno che sono una risorsa del paese ma chiedono all’Italia di porsi il problema del mezzoggiorno in maniera seria. La questione meridionale è vecchia: la posero le varie inchieste parlamentari tra cui quella di Franchetti e Sonnino, la pose Antonio Gramsci il  sardo che è stato uno dei più grandi giganti del 900 europeo, la pose il movimento socialista siciliano con il famoso memorandum di fine 900.

Certamente, a mio avviso, il problema non si risolve con il federalismo voluto da un partito del nord che oggi tiene in pugno l’Italia. Lo si risolve tutti assieme con un piano serio di sviuluppo e di contrasto alle organizzazioni criminali.

E’ doloro dover assistere al fatto che una parte importante del Governo della Repubblica Italiana si rifiuti di celebrare il 150° anniversario dell’unità nazionale e che un Ministro della Repubblica si possa permettere di dileggiare il tricolore che è il simbolo della Patria per la quale tanti giovani sono morti in tante battaglie sul suolo nazionale e fuori i confini della nostra Patria. E’ chiaro che la parte più ricca del paese si muove per la secessione e tenta di mantenere i suoi privilegi che gli provengono da una storia di ingiustizie nei confronti delle popolazioni meridionali.

Noi meridionali ci sentiamo italiani e tali vogliamo rimanere in un clima di unità e di collaborazione tra ricchi e poveri per arrivare alla unità economica del paese.

Si è fatta l’Italia affermò Massimo D’Azeglio, ora bisogna fare gli italiani. E a distanza di 150 anni noi diciamo che bisogna fare l’unità economica.

Ai giovani studiosi diciamo con molta franchezza che le prospettive non sono rosee e, per dirla con Sciascia, affermiamo che “anchi  si sugnu uorbu viu nivuru”. Ma noi abbiamo il dovere di dare speranza e assieme al partigiano francese Hessel diciamo: “INDIGNATEVI” e partecipate alla lotta polittica con spirito di servizio e cercate di diventare protagonisti del vostro riscatto,come lo furono i siculi picciotti.

Agrigento,lì 15.3.2011

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