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11 gennaio 1693. Un terremoto rade al suolo il Val di Noto

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"L'anno del Signore 1693, a nove di gennaio giorno di venerdì a hore quattro e mezza di notte fece un terremoto cosi grande che s'intese per tutto questo regno di Sicilia, e con tutto che havesse durato assai perché il moto fu regolato, danneggiò solamente Melilli et altre città e terre del Val di Noto nel cui territorio si subissarono molte torri situate in campagna.



La nostra città di Scicli non ebbe altro danno che una casuzza nel quartiere dello Scifazzo senza danno delli habitatori, benché le fabbriche di molte case e palagi si risentirono e la madre chiesa di S. Matteo precisamente nella cappella del SS. Crocifisso.

Ognuno stava timoroso della replica alle 24 ore, qual termine passato si credea non v'esser più periglio. Ma che!

Alli 11 di gennaro, a hore 2 circa, giorno di domenica, fece di nuovo un terremoto cosi horribile non tanto per la durata - benché per altro fosse stato lungo per quanto un devoto che cominciò la litania della Beata Vergine arrivò a quelle ultime parole Regina Virginum - quanto fu per lo moto irregolare e saltellante, e veramente la terra nel mentre che faceva detto terremoto non solo si nacava ma si spinse in aria per tre volte come se avesse ballato, al che fu attribuito il gran danno che produsse".



Comincia così la Relazione storica sui disastri accaduti in Scicli dell'11 gennaio 1693, che l'arciprete Carioti come testimone diretto lasciò scritta in un registro di battesimi della matrice.



Il terribile sisma, o terremotu ranni come lo definiscono le cronache coeve, non era certamente il primo né sarebbe stato l'ultimo per una zona di elevata sismicità come la Val di Noto, come spiega lo storico Giuseppe Barone ne "L'Oro di Busacca", edito da Sellerio.



Non a caso, il Catalogo del Baratta registra per l'arco cronologico dal XVI al XIX secolo ben 160 eventi sismici superiori al quinto grado della scala Mercalli e circa 40 oltre il settimo grado.



Gran parte di questi terremoti non sono stati ancora studiati né conosciuti nei loro effetti, come ad esempio quello del 1542 che provocò danni gravissimi nella contea di Modica. Per il 1693 disponiamo invece di fonti archivistiche abbondanti e di una recente fioritura di studi, anche se per l'area iblea l'indagine rimane ancora tutta da fare.



L'analisi dei flussi demografici condotta da Ligresti conferma la stima approssimata di circa 58.000 morti, di cui 11.000 nei sei paesi della contea: quasi 5.000 a Ragusa (la metà della popolazione), 3.400 a Modica e 2.000 a Scicli (rispettivamente il 19 ed il 21 per cento degli abitanti), laddove Chiaramonte e Monterosso contarono 303 e 232 vittime e la "nuova terra" di Vittoria appena 30. Degli altri centri contigui fu Spaccaforno a pagare il prezzo più alto con 2200 morti (23 per cento), mentre le perdite stimate risultano di 541 unità per Giarratana, 200 per Biscari, 269 per Comiso.



A Scicli vecchio e nuovo sito furono praticamente cancellati dalla violenza delle scosse, che continuarono fino all'autunno ritardando ulteriormente l'opera di ricostruzione.



Crollarono le fabbriche maestose del collegio gesuitico e del convento dei carmelitani, le principali chiese ed i monasteri di S. Giovanni e di Valverde, i conventi dei cappuccini e della famiglia francescana, mentre sul colle di S. Matteo rovinò interamente la matrice i cui lavori di ampliamento non erano stati ancora ultimati. La fuga disperata per le campagne, il disordinato addensarsi di uomini ed animali nei pianori dell'Oliveto e degli Junci, il rischio di epidemie e la morte per fame e per freddo rappresentano lo scenario apocalittico nel quale si consumano violenze private ed atti di sciacallaggio.



Nessuna repressione, tuttavia, sarebbe stata in grado di ripristinare l'ordine in così breve tempo di fronte a un tale evento traumatico che aveva alterato in profondità le gerarchie sociali dell'ancien régime, cosicché per bisogno o per paura parecchi nobili e cavalieri andavano vestiti con ruvidi palandrani di "arbaxo" o con i mantelli dei frati cappuccini, "né si distinguea il servo dal padrone e la necessità facea lecita ogni cosa".



La Relazione del Carioti coglie questo eccezionale capovolgimento della piramide sociale, tanto che dalla catastrofe naturale sembrano sortire effetti rivoluzionari: "nell'anno del terremoto correva assai il denaro, e li villani fatti ricchi di li furti, rapine e dal travaglio, che un huomo per una giornata non si contentava di mangiare, bere e tari quattro, e così si fecero gran lussi di vestiti, oltre alla ghiottoneria del mangiare e bere, però speso detto denaro sconsideratamente si scoverse l'anno venturo sino al presente in gran penuria, ora ch'ognuno s'ha dovuto fabricar di nuovo la casa et armarla del necessario".



Le fonti giudiziarie della contea aprono inediti spiragli su questo microcosmo sociale colpito dalla catastrofe e nel quale i comportamenti individuali e collettivi si inscrivono sotto il segno delle relazioni violente o degli abusi per necessità, sostiene Giuseppe Barone.



Le baracche di legno per i senza tetto, ad esempio, sono un lusso che per il costo elevato dei materiali non possono permettersi i poveri, i quali alla precarietà delle capanne di fango e paglia preferiscono almeno il più solido riparo naturale delle grotte: tornano perciò a ripopolarsi le abitazioni trogloditiche di Chiafura e qualunque antro naturale sui fianchi delle cave, per il cui possesso si scatenano liti furibonde tra famiglie e clan di vicinato. Le denunce per furti e "discassazioni" riempiono i registri della segreteria di giustizia.



Il tentativo di ripristinare la normalità s'intravede nella elezione dei capitani e maestri di fiera per organizzare le feste di S. Guglielmo e di S. Bartolomeo, ma la drammatica congiuntura del dopo-terremoto è resa più grave della crisi finanziaria che paralizza l'amministrazione comitale e il bilancio dell'università.



Scarseggiano i fondi per far funzionare i servizi essenziali, per pagare i salari arretrati ai soldati della Sergenzia ed alle guardie della marina, e per acquistare "trombette, tamburi, palle e miccie per lo pericolo di disbarco di navi inimiche" tra Ciarciolo e Donnalucata, mentre la mancanza di denaro per riparare i magazzini della corte frumentaria esponeva ai rischi del maltempo il grano appena sufficiente per il pubblico "panizzo".



Nell'estate del 1694 il cantiere sciclitano è in grande fermento, se i "mastri" Giuseppe e Pietro Lucenti chiedono di essere autorizzati "a farse con li propri mani tutti li charamidi per coprire case et poteghe", non essendo sufficiente la normale produzione giornaliera del gabelloto delle "chiaramide", Ignazio Asta, che due anni dopo troviamo firmatario di una supplica al secreto Angelo Giavatto, perché data l'urgenza di ricostruire le case molti artigiani si erano messi a fabbricare tegole e nessuno pagava a lui la gabella dello "zagato"; l'intervento del Tribunale del Real Patrimonio liberalizza parzialmente la produzione, dietro pagamento di un modesto pedaggio al gabelloto.



La ripresa dei consumi provoca una serrata concorrenza tra vecchi e nuovi "molinari" che si contendono le rare concessioni d'acqua per forza motrice. La ricerca delle aree fabbricabili si fa spasmodica e dai quartieri del centro urbano popolo "basso" e modesti artigiani sono espulsi con la forza del denaro o della prepotenza feudale.

Ma la ricostruzione del tessuto edilizio avviene in un clima avvelenato dai ricorsi e dalle vertenze sulla proprietà delle aree, sulle usurpazioni e sui continui sconfinamenti.

Giuseppe Savà

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