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Un viaggio nel cuore della meravigliosa Sicilia Barocca


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Pubblichiamo l'ultimo scritto di Gesualdo Bufalino rivolto all'amico Piero Guccione. Un testo inedito su internet. E una grande lezione di estetica. Da leggere d'un fiato

 

 

 

Caro Piero,

la cautela a cui mi obbliga la mia odierna condizione di convalescente non mi permette di essere al tuo fianco stasera.

Mi sentirei tuttavia un disertore se non partecipassi in qualche modo alla presentazione del volume che ti riguarda.

Lo faccio con questa lettera, svolgendo per iscritto le due o tre idee che avrei voluto esprimere a voce su te e la tua arte.

Poco ho da dire sul libro: non ho avuto ancora l'occasione di vederlo ma, con la sicumera che è propria della mia età, posso giurare ch'è opera degnissima. Marco Goldin, il curatore, è una delle identità emergenti della critica d'arte contemporanea; editrice è l'Electa, cioè una garanzia riguardo alla perfezione della stampa e alla qualità delle immagini. Le tue opere, infine, che in gran parte conosco, sono il prezioso cuore del libro e commuovono da sole.

Qui potrei chiudere ma la circostanza mi sollecita a ripensare il tuo cammino creativo e a rimeditare, alla buona, talune possibili ipotesi sul senso stesso dell'arte e della tua, in particolare.

Prendo le mosse dal punto più lontano possibile, dai primi documenti di pittura rupestre che ci sono stati serbati in forme di graffiti nel buio delle grotte di Altamira e Lascaux. Il cavernicolo che li incise scelse, come si sa, per soggetto privilegiato gli animali con cui aveva maggior commercio, domestici o selvatici, oggetti di paura o di minaccia: bisonti all'assalto o in fuga, cavalli, orsi, selvaggine
varie... Ora io mi chiedo: l'autore si proponeva di raffigurare un vissuto o una fantasia? Obbediva alla memoria o alla speranza? In altre parole voleva celebrare un successo di cacciatore o immaginava una preda futura, esorcizzandone l'evento?

Nel primo caso si avrebbe l'inizio del realismo, nel secondo dell'arte magica e visionaria. Come vedi, sin dalle origini si affrontano nello spirito umano la vista e la visione: la vista, che significa la coscienza della realtà e la sua traduzione in termini riconoscibili; la visione, che proietta sullo schermo della mente barlumi e schegge di sogni.

Da quelle remote premesse si può dire discendano le due schiere in cui si son divisi gli artisti nel corso dei secoli; da un lato i servitori del vero e del trompe l'oeil; dall'altro i veggenti d'una menzogna che si maschera da verità ma è forse una verità più sottile.

Pensa, fra i primi, ai fiamminghi, a certe loro nature morte di minuziosa mimetica aderenza; e confrontale con le bottiglie di Morandi, con le forchette di Soutine. Le une più simili ad assemblee di fantasmi che a recipienti reali; le altre autentici artigli di belve che si sfidano all'orlo del piatto, senza che nessuno abbia il coraggio di usarle per avvolgervi due spaghetti...

Scrive Van Gogh in una lettera al fratello Théo: «Da un anno non faccio che correre appresso alla natura e tuttavia mi lascio ancora andare a dipingere stelle troppo grandi». Ciò vuol dire che in lui la vista non sapeva più fare a meno della visione; e che oggi nessun pittore sarebbe fiero se un uccello venisse a beccare l'uva nei suoi quadri, scambiandola per vera, come si dice accadesse al greco Zeusi, qualche millennio fa.


Vista e visione, dunque, nemiche e alleate insieme sulla tavolozza di ciascun pittore. Ma una terza parola mi viene alle labbra e sei tu, Piero, a suggerirmela. È la parola "visibilio", e cioè l'estasi dello sguardo, dell'occhio che s'innamora del creato come può essersene innamorata la pupilla di Dio il settimo giorno dopo il Fiat oppure all'indomani del diluvio, quando la colomba si levò a volo e vide la
terra riemergere vergine e grondante dai flutti. Visibilio è parola curiosa. Pensa che l'etimologia ne deriva da un passo del Credo: visibilium omnium et invisibilium: di tutte le cose visibili ed invisibili.

Un aggettivo plurale, dunque, che è divenuto un sostantivo singolare ed ha assunto, accanto al significato primitivo di quantità, abbondanza di cose visibili, il senso di stupore gioioso davanti a uno spettacolo di bellezza. Come nella locuzione: andare in visibilio.

Ebbene, caro Piero, il segreto della tua pittura a me pare stia qui:

nell'aver trovato il punto di fusione armoniosa fra vista, visione e visibilio; nell'aver scoperto la giuntura fra quelle due parallele, apparentemente incomunicabili, che sono la verità e l'incantesimo.

Questo mi pare il senso della tua arte, che unisce insieme la pietà per un mondo offeso dall'uomo e una sete insaziabile d'innocenza.

Qui anche si ritrova la risposta alla domanda che l'altrieri mi hanno rivolto dei ragazzi che lavoravano a un documentario sulla tua arte: «Perché il pittore è tornato a vivere nella solitudine della provincia dopo i successi romani?».

Ho risposto che qui a Scicli e nella campagna di Quartarella e nelle spiagge vicine tu potevi, assai meglio che nello squallore delle periferie urbane, cogliere insieme la realtà e il suo doppio, il suo miraggio invisibile; e quindi coniugare disperazione e fiducia, lo schianto dell'albero ucciso, l'immondizia delle plastiche sulla sabbia e insieme il miracolo di un idillio, d'una redenzione ancora possibile.

In questo senso la tua pittura, che sembrava lontana di ogni impegno ideologico, recupera un intenso contenuto morale e sfiora la passione.

Ripenso, guardando certe tue cose, a un verso di Dante dove si traduce musicalmente il sentimento d'ineffabile dei tuoi cieli, delle tue marine: «Dolce color d'oriental zaffiro...».

È un verso del Purgatorio e purgatoriale mi sembra in effetti la tua pittura, sospesa fra peccato e riscatto, rimorso e malinconia.

È un silenzio che si fa luce.

Come qui a Scicli, alla fine d'ogni agosto, quando nell'ultima notte di plenilunio salgo a San Matteo con una piccola brigata di amici a guardare dall'alto il pulviscolo di lumi nella valle e a salutare l'estate che se ne va.

È un paesaggio, e un sentimento che somiglia a te, alla tua casa, alla tua pittura. Sembra in essi di poter cogliere il segreto dell'arte, quell'indicibile valore aggiunto che scava un abisso fra due proposizioni uguali: quella del meteorologo che annunzia in TV una notte serena e quella di Leopardi che per dire la stessa cosa pronunzia sillabe immortali: «Dolce, chiara è la notte e senza vento».

Trasforma cioè la notizia in musica, l'informazione in visibilio. Torno così alla parola di prima e alla tua pittura. Della quale altri parlerà con competenza di storico e sensibilità di critico.
Io sono solo un guardone. Il che non m'impedisce di affermare, e concludo, che a me tu sembri il maggiore fra i pittori italiani contemporanei. In una contingenza che vede contrapporsi tumultuosamente i paladini dell'eversione e i tutori
dell'ordine, tu vivi con estremo pudore la tua condizione di
orgogliosa solitudine. E mentre affermi la tua fede nella trascrivibilità del reale, vi introduci una vibrazione di mistero, una esitazione e sospensione del tempo, quanto basta a insinuare il tremito del sacro dentro gl'ingranaggi inflessibili della ragione.

Null'altro avrei da aggiungere se non avessi scoperto fra le mie carte un vecchio biglietto d'auguri per il tuo cinquantesimo compleanno, scritto dieci anni fa per il Giornale di Scicli.

La data è quella del 5 maggio 1985. Ciò vuol dire che in questi giorni ricorre il tuo sessantesimo compleanno e che, guardandoci indietro, possiamo misurare quanto fecondo sia stato il decennio trascorso. Ti auguro un bilancio altrettanto operoso per il traguardo dei settant' anni, nel 2005.

Prevedo che cause di forza maggiore mi tratterranno altrove, quel giorno. Ma sin da ora, a futura memoria, valgano questi fogli come augurio e rinnovato abbraccio di ringraziamento a te per la tua opera e la tua vita.

                                                                           Gesualdo Bufalino


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