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Sicilia, ecco come scompare l'identità di un popolo

CulturaPALERMO - 31/05/2010
Palermo: l’Ars, il più antico Parlamento d’Europa, ha sprecato 64 anni di opportunità…
Sicilia, ecco come scompare l’identità di un popolo
Chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo… «Nel biberon, assieme al latte, ci viene fornita la ricetta: emigrare! All’estero o nel Nord Italia, poco importa»

Nunzio Lauretta

Su una parete di legno di Sala d’Ercole, l’aula che ospita le sedute dell’ARS (acromimo di Assemblea Regionale Siciliana), sono scolpite due date: 1130 e 1947. La prima ricorda che il Parlamento siciliano è il più antico d’Europa, la seconda che l’ARS ha iniziato la sua attività esattamente sessantatre anni fa, prima che il Senato della Repubblica e la Camera dei Deputati iniziassero la loro.

Il Parlamento di una moderna democrazia, a differenza che in passato, è un organo di carattere elettivo ed ha il compito di approvare le leggi, accordare o negare la fiducia al Governo e, infine, controllarne o indirizzarne l’attività.
Ecco perché la prima data, così lontana da noi, ci obbliga a ripercorrere, anche se molto velocemente, il lungo cammino che il Parlamento siciliano ha compiuto nella sua storia quasi millenaria, per passare, poi, ad approfondire il tema che è più vicino a noi, quello del Parlamento autonomistico e repubblicano che si insediò il 25 maggio 1947.

La nostra generazione si trova di fronte ad una grande transizione segnata, sul piano dell’agire economico, da processi di globalizzazione, di competizione tra imprese e sistemi territoriali. L’Europa si è di recente data una moneta unica. Sul piano politico-istituzionale si vanno ridisegnando le funzioni delle istituzioni sovranazionali. Lo Stato-Nazione, forma istituzionale che ha segnato tutto il Novecento, appare oggi o troppo piccolo di fronte al globale o troppo grande rispetto al locale. In ogni caso s’impone un suo ripensamento per meglio ridisegnare ruoli e funzioni proprî dello Stato e delle emergenti Autonomie locali.

E’ proprio alla luce di tali emergenze, cioè nella ormai ineludibile necessità di ridisegnare il contesto politico-culturale e socio-economico della Sicilia, che il Parlamento siciliano torna a recitare quel ruolo di primo piano che gli pertiene da sempre, quale elemento-simbolo dell’identità siciliana.

Il Parlamento siciliano è oggi chiamato non più e non solo a legare il presente ed il passato della Sicilia, ma a saper coniugare l’ieri e l’oggi per programmare il domani della Sicilia e dei Siciliani. Per tutti questi motivi, la Sicilia, dal 15 maggio 1946, gode di uno Statuto speciale, autonomistico. Paradigma identitario, nella volontà dei propositori. Delusione definitiva per tutti.

Si legge qua e là che l´identità nazionale sarebbe figlia di tre cose, tutte carenti in Sicilia: la presenza di una classe dirigente, di un´élite compatta e diffusa alla guida della società e consapevole della propria missione storica di avanguardia di una Nazione; la presenza di uno Stato (da noi solo una "regione" sia pure con tanti secoli di Stato); una tradizione letteraria ininterrotta.

Si potrebbe dire: con lo Statuto autonomistico sarebbe stato possibile provare a fare coesistere e convivere le tre condizioni appena esposte. Si potrebbe dire, appunto, come mera esercitazione accademica, e più niente. In sessantaquattro anni di Statuto, la Regione Siciliana è riuscita solo a sprecare sessantaquattro anni di opportunità.

Ci assale un dubbio: perché a fronte di un sicilianismo diffuso e palpabile in ogni settore della società siciliana e di un altrettanto forte ed indubbio attaccamento all’identità da parte dei Siciliani, le formazioni autonomiste, vuoi di natura radicale (indipendentistiche), vuoi moderate (autonomistiche), hanno sempre fallito o in termini elettorali o di proposta politica?

La risposta, solitamente, è di questa natura: la colpa è del bisogno e del sistema clientelare, anche tutti sappiamo che altri popoli, anche più bisognosi di noi, sembrano più orgogliosi e soprattutto più coerenti nelle loro scelte politiche. Anche se a nessun popolo viene inculcata, sin dalla nascita, la consapevolezza di essere povero. Nel biberon, assieme al latte, gli viene fornita la ricetta: emigrare! All’estero o nel Nord Italia, poco importa. Così si plasma, fin da bambini, l’uomo siciliano alla subalternità. Se così è, ed è così, il problema, allora, sta nel fatto che l´identità nazionale siciliana è debole nella percezione comune, sfocata, quasi in crisi.

Bisogna partire da questo tipo di analisi per riconquistarla, altrimenti, come sosteneva Virgilio Titone (averne oggi di studiosi come Lui!), si degrada fatalmente da "Nazione a Regione", senza che ce se ne accorga, perdendo, assieme al concetto di Nazione e di nazionalità, tutti i diritti propri di un Popolo. Il primo passo, a nostro avviso, va compiuto nella direzione del recupero, da parte del popolo siciliano, della consapevolezza culturale e storica del suo passato.

Infatti, va qui precisato che "quando si vuole togliere l´identità ad un popolo gli si tolgono la cultura, la lingua e la storia, in maniera che i ´colonizzati´ finiscano con l´identificarsi con la cultura, la lingua e la storia del Paese dominante. Questo è accaduto ai Siciliani, i quali sono stati convinti del fatto che essi non hanno una propria cultura e che la loro lingua è un rozzo dialetto. E a questo proposito è doveroso ricordare un increscioso fatto accaduto qualche anno fa. Il parlamento italiano ha giustamente riconosciuto che dentro i confini dello Stato, oltre alla lingua italiana, vi sono altre lingue che devono essere protette. E così ha stabilito, giustamente, che la lingua sarda deve essere protetta.

A questo punto avremmo aspettato di sentire che, siccome in Sicilia vi sono cinque milioni e mezzo di Siciliani ´di origine siciliana´, anche la lingua siciliana doveva essere protetta. Invece la sconcertante decisione del parlamento italiano è stata che il siciliano non è una lingua, ma un rozzo dialetto, e che quindi non deve essere protetto. A favore della lingua siciliana (non del dialetto siciliano) ha preso autorevolmente posizione, con un articolo pubblicato nell´edizione di Palermo del quotidiano ´La Repubblica´ del 10 dicembre 2000, il professore Francesco Renda, il quale, dopo aver chiarito di non essere separatista e di non essere nemmeno sicilianista, ha chiesto che la lingua siciliana sia insegnata in Sicilia nelle scuole, perché la lingua è «il primo dato costitutivo della identità di un popolo». I tentativi di pochi illuminati assessori regionali all’Istruzione sono finiti nel nulla.

Io non sono un esperto in campo linguistico, sono però in grado di affermare che nella seconda metà del secolo XIV e nel secolo XV la Real Cancelleria Siciliana emanava in lingua siciliana documenti firmati dal sovrano, e che la regina Bianca, benché navarrese, scriveva le sue lettere in lingua siciliana. Quindi è evidente che essa, dovendo venire in Sicilia per il suo matrimonio con Martino I, aveva studiato la lingua (non il dialetto) del Paese nel quale sarebbe divenuta regina.

Con una tenace attività, poi, la storia siciliana è stata fatta in parte scomparire (per esempio: Federico III) ed in parte è stata alterata. Per la Sicilia si parla infatti soltanto di dominazioni straniere e i Siciliani sono visti costantemente come oggetti passivi della storia siciliana, che sarebbe fatta sempre dagli stranieri.

E così si parla per la Sicilia di dominazione normanna (i Normanni all´inizio vennero da fuori, ma poi la dinastia divenne una dinastia nazionale); di dominazione sveva (gli Svevi non occuparono mai la Sicilia: Federico II fu re di Sicilia per legittima successione, in quanto figlio della regina Costanza, moglie di Enrico VI ´di Svevia´); di dominazione aragonese (sorvolando anche sul fatto che per alcuni anni il regno di Sicilia fu in guerra con il Regno d´Aragona).

La lettura del quadro genealogico dei re di Sicilia ci riserva inoltre una sorpresa: dall´inizio del Regno di Sicilia, che si ha nel 1130, con Ruggero II, alla fine dell´indipendenza del Regno, che si ha con l´ascesa al trono d´Aragona e di Sicilia di Ferdinando I nel 1412, nel succedersi di tante presunte dominazioni straniere, nel Regno vi fu per quasi trecento anni sempre la stessa dinastia, nella quale la successione qualche volta si ebbe per linea femminile, come, per esempio, nel caso di Costanza d´Altavilla.

Con questa attività volta a distruggere la storia siciliana è stata ottenuta la cancellazione della memoria storico-culturale dei Siciliani, è stata ottenuta, per usare un termine adoperato da qualche studioso, la deculturalizzazione del popolo siciliano. Grazie a questa attività i Siciliani conoscono la storia di Crema e di Cremona, sanno tutto sul tumulto dei Ciompi, ma non sanno, per esempio, chi sia stato il loro grande sovrano Federico III".

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