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Un viaggio nel cuore della meravigliosa Sicilia Barocca

Revisionismo
L'altro Garibaldi
Uno scritto del professor Uccio Barone


Quello di Garibaldi è uno dei pochi miti di fondazione dell'Italia unita condiviso da una larga maggioranza di cittadini. Lo stesso "eroe dei due mondi", del resto, contribuì alla sua costruzione portandosi al seguito della spedizione dei Mille una folta pattuglia di giornalisti e scrittori (con A. Dumas in testa), artisti e pittori per immortalare le imprese militari delle camicie rosse.

Quel mito si è poi consolidato nel tempo, accresciuto e manipolato dall'Italia liberale di Crispi e di Giolitti, dalla dittatura fascista di Mussolini (le camicie nere come eredi naturali di quelle rosse), dalla Resistenza partigiana, dai partiti laici della democrazia repubblicana. Gli storici hanno analizzato la ricca agiografia garibaldina (penso agli studi recenti di Isnenghi e L. Riall), ma non possono più a lungo indugiare nella contemplazione del mito poiché la ricorrenza del 150° anniversario dell'Unità richiede un impegno rigoroso a ridimensionare le celebrazioni rituali ed a ricercare una più attendibile verità storica.
L'epopea dei Mille e la conquista del Regno delle Due Sicilie fanno parte senza dubbio di quell'immaginario collettivo che identifica l'unificazione con l'impresa un po' folle e romantica di un pugno di prodi che imbarcatisi nottetempo dallo scoglio di Quarto vanno a "liberare" l'italico stivale. In realtà, ben poco di questa luminosa leggenda resiste al vaglio della critica storica.
In primo luogo la presunta segretezza della spedizione del 5 maggio 1860 e la pretesa ostilità di Cavour ai piani di Garibaldi sono smentite dalla pubblicazione completa dei Carteggi cavouriani.
Lo statista piemontese non solo era informato dettagliatamente sui movimenti garibaldini dal fido La Farina presidente della Società Nazionale, ma si recò più volte a Genova alla fine di aprile per seguire da vicino i preparativi, mentre il marchese d'Aste con due navi fu spedito a Palermo per un'esatta ricognizione dei luoghi e per prendere contatti con i Comitati rivoluzionari sorti nell'isola. Né si può credere che Raffaele Rubattino fosse davvero un armatore genovese tanto sprovveduto da farsi sfilare sotto il naso i due piroscafi Piemonte e Lombardo. Da avveduto imprenditore, invece, Rubattino era pienamente garantito dal governo sardo: non a caso, di sua proprietà era l'altro piroscafo Cagliari impiegato nella sfortunata impresa di Carlo Pisacane nel 1857. Lo stesso direttore della compagnia di navigazione, G.B. Fauché, venne ampiamente ricompensato per avere chiuso gli occhi di fronte al finto furto delle navi con la nomina a ministro della Marina nel 1862.
Anche i collaboratori più stretti di Garibaldi - Bixio, Sirtori, Medici, Cosenz - erano uomini di fiducia di Cavour. In particolare, la carriera militare di Nino Bixio (eroico difensore della Repubblica romana nel 1849 e cinico esecutore del massacro di Bronte nel 1860) fu a doppio filo legata alle fortune del fratello Alessandro, esule a Parigi dal 1830 ma naturalizzato cittadino francese ed abile uomo d'affari che era riuscito a farsi eleggere deputato dell'Assemblea costituente del 1848 ed a diventare uno tra i principali intermediari tra Napoleone III e Cavour. Né mancò mai l'appoggio politico e finanziario all'impresa da parte di Vittorio Emanuele II, che per mettere sotto tutela Garibaldi impose la presenza tra i Mille del marchese Trecchi, ufficiale dello Stato maggiore dell'esercito sardo, e dell'ungherese Istvan Turr suo aiutante di campo nella guerra del 1859 contro l'Austria.
Gli studi più recenti hanno pure smontato la favola patriottica dei Mille avventurieri e goliardi volontari, che novelli David abbattono il gigante Golia della tirannide borbonica. I giovani patrioti sbarcati a Marsala l'11 maggio 1860 erano in gran parte esperti veterani delle campagne del 1848 e del 1859, e molti indossavano gradi e divise dell'esercito sardo, senza che mai siano stati perseguiti per diserzione dai reparti. E quanto al numero, i Mille rimasero tali solo per le prime due settimane. Soprattutto dopo l'entrata a Palermo (grazie agli incredibili errori dei generali borbonici) l'esercito garibaldino fu ingrossato dalle numerose spedizioni di volontari e veterani partiti da Genova e da Livorno, che inquadrati da ufficiali piemontesi e dispensati dal servizio fecero lievitare il numero degli effettivi oltre 20.000, pari alla forza militare dei borbonici. Nei mesi di giugno-luglio, dunque, non ci fu nessuna disparità di forze in campo e i due eserciti si confrontarono ad armi pari.
Ad ogni buon conto quella dei Mille non fu mai una marcia trionfale, anzi rischiò più volte una drammatica sconfitta. A cominciare dallo sbarco a Marsala, fortunato quanto confuso e disordinato, in una città impaurita che accolse i "liberatori" con porte e finestre sbarrate. Sul piano militare quello di Calatafimi il 15 maggio fu un successo davvero insperato. Più che gli ardimentosi attacchi alla baionetta (i Mille erano privi di artiglieria e di cavalleria), fu piuttosto l'ingiustificata ritrosia del generale Landi a gettare nella mischia le energie fresche della sua robusta seconda linea nonché l'ordine ricevuto di ripiegare su Palermo a trasformare un sostanziale pareggio (30 morti e 150 feriti per parte) in una débâcle soprattutto politica per i borbonici.
Sulle sconfitte dei "picciotti" si è steso spesso un fitto velo di reticenti silenzi, come nel caso della battaglia nei pressi di Monreale dove perse la vita Rosalino Pilo. A Catania il generale Clary il 31 maggio inflisse una durissima lezione alle squadre insorte dei paesi etnei, e la stessa battaglia di Milazzo il 20 luglio costò una carneficina ai garibaldini (oltre 700 morti contro 200 degli avversari), che furono graziati dall'ordine di Francesco II di sospendere la controffensiva nell'ingenua speranza di concludere un accordo diplomatico col Piemonte e di dar vita ad una tardiva Confederazione degli Stati italiani.
Più che le mirabolanti vittorie di Garibaldi, dunque, furono l'abilissima condotta diplomatica di Cavour e la rapida "implosione" della monarchia borbonica ad accelerare la formazione dell'Italia unita. Il crollo del regno meridionale è la vera incognita storiografica che la ricerca scientifica deve colmare per illuminare le tante pieghe oscure del Risorgimento. Rispetto alle riforme amministrative ed economiche degli anni '30, gli anni successivi al 1848 costituirono un'autentica catastrofe per il vecchio Ferdinando II, che riuscì contemporaneamente a litigare con Inghilterra e Francia, a rompere con Austria e Russia, a creare un mostruoso Stato di polizia ed a lasciare i suoi sudditi senza strade e ferrovie.
L'autodissoluzione del Regno delle Due Sicilie, che non poté essere evitata dal giovane ed inesperto Francesco II, è la chiave di volta per comprendere i complessi percorsi che portarono all'"invenzione" dell'Italia unita (R. Martucci). Se ne resero presto conto molti ministri e generali borbonici che preferirono accettare le laute prospettive di carriera offerte da Cavour nel nuovo Stato.
Ad ogni buon conto, la sconfitta militare dei Borboni non fu certo merito dei garibaldini (la battaglia del Volturno nell'ottobre del 1860 si concluse senza vincitori e vinti) ma dell'esercito regolare piemontese che con una guerra mai dichiarata invase gli Abruzzi per le battaglie decisive. Al Parlamento di Torino, in un celebre duello oratorio, lo ricordò il generale Cialdini: "Generale, voi compiste una meravigliosa impresa con i vostri volontari, ma avete il torto di esagerarne i risultati. Sul Volturno eravate in pessime condizioni quando noi arrivammo. Capua, Gaeta, Messina e Civitella non caddero per opera vostra, e 56.000 borbonici furono battuti e fatti prigionieri da noi, non da voi".
Con buona pace di Garibaldi e del suo mito.



Prof. Giuseppe Barone
* Preside della Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Catania

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