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Un viaggio nel cuore della meravigliosa Sicilia Barocca

La recensione di Cuore di
Cactus, di Giuseppe Pitrolo


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Antonio Calabrò è un siciliano di Patti; nato nel 1950, è stato giornalista presso l’“Ora”, “Il Mondo”, “La Repubblica”, “Il Sole 24 Ore” (di cui è stato direttore editoriale).
E’ un riformista vittoriniano, sospeso fra astratti e concreti furori. E questo suo “Cuore di cactus” (Sellerio) è proprio un “Diario in pubblico”, un’“autobiografia esplicita”. Anche se Vittorini partiva
dalla letteratura per parlare di tutto il resto, mentre in Calabrò il giornalismo, la società, l’economia sono compresi (e spiegati) tramite parole e libri (“un uomo è i libri che ha letto, i mae-stri che ha avuto, gli amici che ha scelto, le donne che ha amato”).
Infatti Calabrò, in “una notte d’inverno”, mette insieme riflessioni, ricordi e rimpianti in una sorta di autobiografia e auto-analisi intellettuale, giornalistica, civile che dagli anni Sessanta dell’“Ora” (ma si va indietro fino ai nonni…) arriva ai giorni nostri.
“A vent’anni è tutto chi lo sa”, cantava Guccini, infatti da giovani si è totalmente proiettati verso le mille possibilità della vita, che è vista come progetto e proiezione di sé; superati gli ‘anta, alla
pianificazione e alle azioni si accompagnano i ricordi e i bilanci: non è un caso che i libri di memorie vengano scritti dopo una certa età: è vero, certo, che si scrive sempre per capire e capirsi, per “raccontare e raccontarsi”, ma dopo i 50 anni è più urgente la necessità di
ricostruzione di sé, di riappropriazione del proprio passato, della propria identità: e deriva – probabilmente – dal bisogno di ricordare per ritrovarsi anche questo libro di Calabrò, che ne spiega l’origine proprio con le paro-le di Vittorini: “Né il saggio storico né la letteratura creativa possono adempiere al compito di regi-strare i mutamenti cellulari della storia in seno alla vita privata. Resta l’autobiografia esplicita”: e quindi anche Calabrò parlando di sé parla della Sicilia e dell’Italia.
Calabrò è andato via dalla Sicilia a trentacinque anni, “un quarto di secolo fa”, dopo la mor-te di Cassarà: il libro è (anche) una riflessione su questa scelta: andare o rimanere? E sul conseguen-te senso di colpa.
Ma l’essere andato via gli permette una visione globale: Calabrò guarda Palermo e la Sicilia dal punto di vista, dialettico, di Milano e della globalizzazione.
Il titolo, “Cuore di cactus”, è un ossimoro che ci pensare alla leopardiana “ginestra”, ma an-che al giornale che si stampa a Racalmuto: “Malgrado tutto”.
Di Calabrò avevo letto un bel libro del 1996: “L’alba della Sicilia”, che rifletteva sui modi che consentissero alla nostra isola di “avere un ruolo da protagonista”; però ora i colori si sono in-cupiti: “L’alba della Sicilia” rifletteva il riformismo degli anni Novanta, l’ottimismo
della volontà predominava sul pessimismo della ragione: erano anni di grandi novità e cambiamenti: citiamo so-lo:
-    l’abolizione della preferenze multiple;
-    Tangentopoli;
-    il decisionismo di Giuliano Amato;
-    l’elezione diretta dei sindaci, con la conseguente stabilità e la
realizzazione di opere trala-sciate da decenni;
-    la cattura di Riina e di altri boss;
-    l’introduzione del maggioritario uninominale;
-    la nascita Forza Italia, col Berlusconi a quel tempo innovatore che
prometteva 1.000.000 di posti di lavoro e 2 aliquote fiscali;
-    il sorgere dell’Ulivo: e quindi le privatizzazioni, il calo del
debito pubblico, l’inflazione al 2 %,…
Ma dopo 16 anni il clima è cambiato, si è involuto, e Calabrò rispecchia ciò: ora si parla solo di intercettazioni e federalismo, per il quale bisogna avere il coraggio di dire cos’è, usando una memorabile battuta di Paolo Villaggio a proposito della “Potiemkin”: “Il federalismo di
Bossi è una cagata pazzesca!”
E basti ricordare le immagini di Berlusconi e Bossi di 16 anni fa: sprizzavano energia e vita-lità; ora si vede che sono due vecchietti (abbiamo rispetto per le persone anziane, ma purché ricono-scano i propri limiti): si pensi piuttosto ai quarantenni che governano gli altri stati: Obama, Clegg, Cameron… Siamo un paese invecchiato, impaurito, timoroso del nuovo, in cui è nata, paradossal-mente, la “questione settentrionale” a scapito della “questione meridionale”;
siamo “diventati adulti senza essere cresciuti”; e la fisiologia ci insegna che le arterie di un settantenne sono più incrostate di colesterolo di quelle di un trentenne – quarantenne…
Basti pensare alla Sicilia di questi anni, in cui non si riesce nemmeno a raccogliere l’immondizia. E anche a Ragusa, nella nostra un tempo “isola felice nell’isola”, da alcuni anni par-liamo quasi solo esclusivamente di discariche (Pozzo Bollente, Cava dei Modicani, San
Biagio…): cioè non si riesce nemmeno a gestire l’ordinarissima amministrazione.
Un’altra differenza è nella struttura dei due libri: Calabrò è passato dai ragionamenti de “L’alba della Sicilia” ai frammenti di “Cuore…”, dalla narrazione alle schegge: sono barthesiani “frammenti di un discorso amoroso sulla Sicilia”. Anche la sintassi è franta, nominale.
Belle le riflessioni sui siciliani, flanèurs e viaggiatori sdraiati come Corto Maltese.
Disarmanti le considerazioni sul dialetto siciliano, che non ha il futuro (ma, dico io, il Latino ha 2 futuri, e anche l’infinito futuro, e la perifrastica attiva: se hai una lingua così domini il mondo; e se
vuoi dominare il mondo ti crei una lingua così…).
E’ triste rilevare che “la differenza fra Nord e Sud sta crescendo”.
Eppure in Sicilia di volta in volta non sono mancati i periodi riformisti: vedi:
-    le lotte contadine (rievocate da “Baarìa”…);
-    certi momenti dell’Autonomia;
-    la lotta alla mafia negli anni Novanta;
-    la determinazione della Confindustria di Ivan Lo Bello e dei giovani di “Addio pizzo”…
Insomma, Calabrò (e noi con lui) può far sua la frase finale de “Il giorno della civetta”, col Capitano Bellodi che riguardo la Sicilia dice: “Mi ci romperò la testa” (ma è sempre bene dotarsi di casco…).
 

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