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Un viaggio nel cuore della meravigliosa Sicilia Barocca

Vi si produceva il miglior miele dell'antichità








Sarà capitato anche a voi di fare questo sogno.
Camminate in una landa arida e deserta. E, d'un un tratto, vi trovate, girato un
angolo o varcato un portone, in un magnifico paesaggio verdeggiante con
alberi, ruscelli, prati fioriti.

Ecco: è quello che capita a chi - dall'arido tavolato degli Iblei, punteggiato di solitari carrubi e
mandorli contorti su garighe aromatiche - scende in qualcuna delle
"cave" (gole rocciose) che ne incidono la scabra superficie.

Lo scudo di bianche rocce calcaree del Pliocene e del Miocene che copre il
settore sudorientale della Sicilia è profondamente inciso dalle gole
che nei millenni i corsi d'acqua hanno scavato aprendosi la strada
verso il Mar Ionio. Il Tellaro, il Cassibile, l'Anapo, tanto per citare
i più comuni, presentano spettacolari canyon (le "cave" appunto) che
preservano, negli angusti fondivalle ombrosi e freschi, un ambiente
completamente diverso da quello che si può ammirare restando
sull'assolato e riarso altipiano.

L'antico miele degli Iblei
Tra le varie stupende cave degli Iblei alcune sono state giudiziosamente trasformate dalla
Regione Siciliana in riserva naturale: tra queste la Cava Grande del
fiume Cassibile, istituita nel 1984, e la Cava Grande dell'Anapo con la
necropoli di Pantalica, nel 1997.

A chi desideri, dagli abitati di Ferla o di Sortino, scendere nella Riserva naturale orientata di
Pantalica, Valle dell'Anapo e Torrente Cava Grande, vasta circa 4.000
ettari in provincia di Siracusa, il paesaggio si rivelerà con due,
sovrapposti e contrastanti, ambienti.
Il primo, superiore, è assolutamente unico: si tratta della necropoli - composta da circa
5.000 tombe scavate nella pietra - che doveva servire a un centro
preistorico (forse la mitica Hybla) che, dal 1250 al 700 avanti Cristo,
si ergeva su una specie di grande nave di pietra posta alla confluenza
dei fiumi Anapo e Calcinara-Bottiglieria. Il luogo, abitato in varie
fasi nei millenni, ospita anche ruderi di costruzioni bizantine e
medievali.

La necropoli, il cui ambiente è ancora quello solare del tavolato calcareo (nei cui strati sono ricavate terrazze rupestri
crivellate di cavità quadrangolari), fa a prima vista pensare a un
immenso alveare. E l'impressione è pertinente dato che, assieme al
mitico monte Imetto dell'Attica, gli Iblei sono stati per secoli
produttori del miglior miele dell'antichità (optimus semper lo definiva
Plinio). E ancor oggi, in qualche luogo di questa area, come a Sortino,
si usano arnie parallelepipede, che ricordano nella forma le tombe
rupestri. Che il miele qui dovesse essere (e sia ancora) ottimo lo
dicono i fiori di queste garighe in cui il timo e il rosmarino, il
mirto e il mandorlo, l'erica e la santoreggia distillano aromi preziosi
al servizio delle api iblee.

Nel regno del gheppio
A scendere, con prudenza, lungo i terrazzi della necropoli (un percorso affascinante che ci
catapulta indietro nei millenni) si incontrano pulvini emisferici di
euforbia arborea che d'estate avvampano di rosso, drappeggi scuri di
edera, cespugli folti di lentisco e di mirto, ornielli eleganti, lecci
compatti, terebinti odorosi, perastri contorti, caprifichi rachitici e
capperi penduli. Nei prati, ecco gli asfodeli dai fiori rosati, le
scille marittime dal bulbo esagerato, i fichi d'India celesti.

A essere (molto) fortunati, si può essere sorpresi dal frullo improvviso
di una coturnice sicula sfuggita ai cacciatori su qualche cengia
impervia e si può assistere al volo possente del falco pellegrino che
qui nidifica o alle evoluzioni "a Spirito Santo" del gheppio, di casa
in questi anfratti.
Il tutto avvolto dalla magica atmosfera formata da questo immenso condominio funebre ricavato dalla rupe e lavato da
mille inverni piovosi, calcinato da mille estati roventi su una valle
che dal basso invia messaggi freschi e verdeggianti.

Tra le fronde selvagge dei platani
L'universo cambia quando si arriva nel fondo del canyon. Qui è il regno degli
alberi, veri alberi e non i suffrutici stenti abbarbicati alle rupi che
abbiamo visto sul tavolato. Ed è il regno dell'acqua. In questo
serpente verdazzurro che si divincola tra due pareti di roccia si
conserva il ricordo delle grandi foreste che forse, prima di Hybla e
del suo popolo misterioso, rivestiva tutta la Sicilia. Selve intatte il
cui sostegno permetteva ai fiumi di 3.000 anni fa di scendere ricchi
d'acqua e maestosi fino al litorale, consentendo alle grandi navi di
risalirne il corso.
Quegli stessi fiumi che oggi, a malapena e solo in determinate circostanze, riescono a riversare in mare,
superando le barre sabbiose, il loro contributo.

Qui è tutto ombra e silenzio. Percorrendo il sentiero che ha preso il posto
dell'antica, commovente ferrovia (oggi eliminata) che correva lungo
l'Anapo, la selva riparia ci avvolge con la sua frescura.
La presenza che in essa più ci colpisce è quella del platano. Abituati
come siamo ai platani che ombreggiano piazze e viali cittadini,
potremmo ignorarlo come una essenza domestica, estranea in questa
wilderness sicula. Un po' come l'onnipresente eucalipto australiano. Ma
guardatelo bene questo platano; e, soprattutto, le sue foglie, incise e
frastagliate, molto diverse dai fazzolettoni color rame che ingombrano
d'autunno i nostri marciapiedi. Sono foglie vispe, "selvagge", quali si
addicono a un albero selvatico come il platano orientale che, in tutta
Italia, sopravvive, vero relitto vegetale, solo sulle rive dei fiumi
della Calabria e della Sicilia meridionale. Ben diverso dai platani
delle alberate cittadine, tristi ibridi tra questo e il platano
americano.

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