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Un viaggio nel cuore della meravigliosa Sicilia Barocca

Quella della preparazione del pane  è sicuramente una millenaria tradizione di lavoro che, in particolare, nel territorio Ibleo restituisce segni, forme, ritmi e gesti di indimenticata memoria. E tutto ciò a dispetto delle semplici soluzioni offerte dall’attuale società
consumistica “impegnata” a veicolare la scelta del cibo in generale e
quindi anche del pane,sulla base della sua appetibilità visiva e
commerciale piuttosto che sull’appetibilità sostanziale e naturale.
In questi ultimi anni stiamo, comunque, assistendo ad una rivalutazione
del mestiere dell’artigiano panificatore e del processo tradizionale di
fabbricazione del buon pane.

Chi come me, non più giovane, ricorda ancora come veniva  preparato un tempo il buon “pani ri casa”.
Il primo passaggio era costituito dalla preparazione del lievito madre (cruscenti).
Un impasto, questo, a base di farina, acqua e zuccheri che mescolati
tra loro e rinfrescati con costanza, fermentano spontaneamente. Questa
fermentazione ha come effetto visibile la produzione di anidride
carbonica che fa aumentare il volume dell’impasto producendo delle
bolle interne. Così, semplicemente, complici il tempo ed i rinfreschi,
nasce il lievito madre.
La pasta acida ottenuta può essere già usata, ma non darà un pane molto
lievitato. Affinché si raggiunga il giusto grado di maturazione del
lievito occorrerà effettuare una serie di "rinfreschi" giornalieri, per almeno 15-20 giorni, finché l'impasto non raddoppia in sole tre ore.
Per rinfresco si intende l'operazione di impastare il lievito con
uguale peso di farina e metà di acqua. L'impasto va poi messo al caldo
finché non raddoppia in volume.

A questo lievito, nella “maidda”, contenitore in legno, veniva aggiunta la farina, setacciata con il “crivu”, e dell’acqua calda e si procedeva quindi all’impasto..
Una volta che l’impasto raggiungeva la compattezza voluta dalle esperte
mani della massaia, si depositava per essere amalgamato e ben lavorato
sulla “briula”, una tavola piana, poggiante su due

panchetti e dotata di una stanga, “u briuni”, ben levigata che presentava ad una delle sue estremità un foro per connettersi alle due alette, “palummedde”, sporgenti dallo stesso piano di lavoro, nel punto in cui esso si restringeva.
Si procedeva, quindi, ad un’antica e familiare gestualità che prevedeva
in genere l’impegno dell’uomo a muovere dall’alto verso il basso la
stanga,che, facendo leva  su un perno ligneo, “u cavigghiuni”,
pressava l’impasto, mentre la donna, seduta a cavallo sulla parte più
stretta della gramola ,  imprimeva alla massa bianca un moto rotatorio,
assecondando con perizia e precisione il cadenzato tamburellare del
briuni.
La ritmata movenza del lavoro (scaniatura)
sembrava scandire i passi e le pause di una simbolica danza, di cui la
tradizione orale ha conservato intatti i riferimenti anche di tipo
metaforico come documentato nelle sue opere da Serafino Amabile Guastella.
Ultimata tale operazione la corposa e informe massa veniva
contrassegnata con una croce e quindi tagliata a pezzi singoli del peso
di circa un chilogrammo.
Ciascun pezzo veniva modellato, con delicata fattura, da mani sicure e
quindi sistemato sopra un letto e lasciato a riposare per un po’ sotto
calde coperte (a misa ro pani o liettu).

Durante tale pausa veniva preparato il fuoco nel forno rigorosamente a legna.
Conclusa questa fase , anch’essa laboriosa, si procedeva ad infornare
il pane e quindi a  cuocerlo realizzando calde e profumate “cudduredde”.
Il pane  nella nostra tradizione oltre ad essere buono da mangiare
svolgeva anche una funzione simbolica. Ci si riferisce, ad esempio, al pane natalizio denominato “cannizzu
che confezionato alla vigilia di Natale veniva consumato per il
Capodanno quando il capofamiglia lo affettava e lo distribuiva a tutti
i componenti il nucleo familiare.
Esso aveva una valenza rituale e propiziatoria come si desume dalla
simbologia raffigurata- u “cannizzu”, contenitore di frumento- e dalla
convivialità del consumo.
Il pane poi nelle dimensioni miniaturizzate, “cudduredde”, assolveva il ruolo di pane-giocattolo, mentre “ a cruna ro Signori” realizzata durante le festività pasquali, appesa al bavaglino dei bambini,

richiamava la sofferenza della dentizione.
Non si possono, infine, non ricordare i pani speciali quali “cucciddati”, “vastuna”, “iadduzzi” e “palummedde
che sintetizzano in maniera esemplare il legame dell’arte panificatoria
con la figurazione dei simboli delle grandi feste, rivelandone la
sacralità.

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