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Un viaggio nel cuore della meravigliosa Sicilia Barocca

Dai ricettari dei monasteri alla dolceria laica e popolare
I modi della panificazione interessano gli usi, i costumi e le credenze popolari, proprio per il significato che il pane ha sempre assunto dal punto di vista religioso, cerimoniale e magico-rituale, per non dire poi che le denominazioni dei pani e dei dolci casarecci, per la loro varia e ricca terminologia, rivestono un'importanza di rilievo anche sul piano linguistico.
Del resto il profilo più strettamente folklorico, per quanto riguarda la Sicilia, era stato già opportunamente messo in rilievo dal Pitré. Senza trascurare del tutto l'aspetto linguistico rappresentato dalla terminologia relativa al nostro argomento, è sotto il profilo storico-antropologico che intendiamo qui presentare con altri approfondimenti analitici e documentari il materiale nuovo da noi direttamente raccolto, come contributo alla migliore conoscenza dell'argomento nella vasta e complessa area siciliana.
Mentre il pane, com'è noto, ha origini antichissime, i dolci a base di cialde derivano dagli azzimi, passati al Cristianesimo dalla liturgia ebraica, e costituiscono nel medioevo buona parte della pasticceria popolare. In linea di massima si può affermare, sulla scia delle ricerche d'archivio, che mentre l'industrializzazione del pane è di tradizione antica, quella dei dolci, invece, non è antecedente al 500. I dolci più semplici furono opera di pistori, mentre i più complicati e raffinati venivano manipolati dagli speziali. Per non dire poi dei dolcieri girovaghi, i brigidinai, i cialdonai, ecc., che, in occasione di varie ricorrenze, confezionavano nelle piazze le loro specialità.

 

Ma è assai noto che una parte di primaria importanza nell'arte dolciaria e culinaria veniva soprattutto svolta dai monasteri, che fin dal medioevo detenevano gli strumenti e il privilegio della panificazione, per non dire della funzione esercitata in particolari momenti anche dalle corti. In Sicilia, a esempio in una lettera del 27 febbraio 1401, Rè Martino, ordinava al tesoriere di Palermo «dudici rotula di citrata, 'oy cucuzzata et quindici di pignolata et venticinqui di mendoli confetti».
A Palazzolo Acreide, nel 1622, per rendere possibile alle monache di casa lo benesto vivere, era riserva la vendita di caseate e sfoglie con mantéca cioè marzapane. Secondo i riveli del 1748 le monache dell'Abbazia di S. Benedetto, a Francofonte, oltre al vitto ordinario, avevano una notevole riserva di miele, zucchero, chiodi garofano, cannella, per la confezione delle varie specialità dolciarie.
D'altronde, per il passato nomi come bozolati de monege e gesuite, riportati dal Migliorini, e per il presente i cosiddetti «biscotti della monaca» e i «dolci della badia», diffusi in numerosi centri della Sicilia, ci dimostrano tale stato di fatto.
Uno dei punti fermi da cui fin da ora possiamo partire, è proprio la funzione che ebbero i monasteri, particolarmente femminili, nello sviluppo della dolceria, al punto che il Pitré considerava addirittura monopolio di essi i più importanti ricettari.
In un inedito del Salomone-Marino, è espressa in modo esemplare la funzione esercitata dai conventi nell'arte dolciaria: «Le monache hanno acquistata celebrità per la confezione de' dolci e de' manicaretti squisiti, non solamente in Palermo, città per eccellenza golosa e consumatrice di dolciumi, ma in tutta la Sicilia ».
Un'interessante testimonianza sull'argomento ci viene, inoltre, dal Meli, il quale dedicò appunto una lunga poesia a Li cosi duci di li batii, cioè, ai dolci che venivano confezionati dai ventuno monasteri di Palermo, da quello di S. Chiara al Salvatore, alla Martorana, ecc., celebrando di ciascuno di essi le specialità più rinomate, privilegio soprattutto del clero e dell'aristocrazia palermitana. E in proposito veniva annotando il Pitré, tra l'ironico e il compiaciuto, che come ogni monastero aveva «l'emblema in legno o in marmo sulla porta», quali, a esempio, «le braccia incrociate per le francescane, il Charitas per le paoline», vantava altresì una «piatta di pasta di mandorle, un manicaretto, ch'era il suo distintivo». Sicché sono rinomati i frutti di pasta di mandorle del convento della Martorana, i cannoli, le cosiddette «teste di turco» e le «cassatelle» della Badia Nuova. Famosi, inoltre, i nucàtili di natale del monastero di S. Elisabetta, e i muscardini della Concezione, per il festino di S. Rosalia. Occorre ancora ricordare che tra le doti che si richiedevano in una monaca, prevalgono quella di cucinera, cioè esperta in arte culinaria, e quella di speziala, che il Pitré traduce con «dolciera». Tra i privilegiati che in ogni festività e ricorrenza ricevevano le specialità dolciarie da parte del convento, era il confessore: a lui era destinata una nguantiera, cioè un grande vassoio coi dolci particolari del convento, insieme a sei fazzoletti di seta rossa e gialla, e sei posate o cucchiaini da caffè in argento.
Anche per la Contea di Modica le cose non andavano diversamente, e in proposito abbiamo, tra l'altro, l'interessante testimonianza di Serafino Amabile Guastella, il quale ricorda che nel periodo di carnevale le monache confezionavano dolci particolari che poi venivano distribuiti alle famiglie meno abbienti. Lo stesso studioso di Chiaramonte ci riporta, infatti, il proverbio: la sdirrumìmca (la domenica di carnevale) fatti arnica la manica, e commenta: «davvero la domenica grassa era il martirio delle povere monache», perché la distribuzione dei dolci a centinaia di famiglie, oltre a creare rivalità e assottigliare le casse del convento, suscitava inevitabilmente invidie e gelosie tra i beneficiati.
A Noto, a esempio, fino al secolo XIX, dei diciassette conventi e dei sei monasteri che contava la cittadina, il più rinomato era quello del SS. Salvatore, che accoglieva numerose religiose che osservavano la regola di S. Benedetto. In un elenco delle ultime monache di questo convento, risultano trentuno religiose in gran parte di estrazione aristocratica, e tre zitelle, chiamate comunemente zitidduzzi di la badia, cioè delle converse che, pur non legate da voti o regole, osservavano la clausura, ed erano soprattutto famose per l'abilità con cui usavano confezionare la più raffinata dolceria.
Dopo il 1860, con l'incorporazione dei beni ecclesiastici da parte dello Stato, alcune suore continuarono a far vita monacale fuori dai conventi, in abitazioni private. Aumentò in tal modo il numero delle cosiddette «monache di casa », le quali contribuirono certo in modo notevole a diffondere via via i ricettari a un più vasto pubblico. Non si dimentichi, del resto, che proprio in questo periodo si stabilirono rapporti più intensi tra le varie classi sociali, e con la partecipazione sempre più attiva dei ceti popolari alla vita politica, e anche i dolci, sia come consumo che come produzione casalinga e artigianale, in conseguenza delle migliorate condizioni economiche, raggiunsero una maggiore diffusione fino a diventare patrimonio comune.
In realtà, nella seconda metà dell'800, la dolceria siciliana assume proporzioni insospettate soprattutto per una serie di circostanze favorevoli, fra cui una propizia congiuntura economica, che ne accelerano il processo promozionale.
In questo periodo, tra i dolcieri più noti di Palermo ricordiamo Salvatore Gulì, che è presente, fra l'altro, con rinomate specialità alla mostra di Parigi del 1867; espone nelle sue vetrine il carro trionfale di zucchero di S. Rosalia, in occasione della sua festività, tra lo stupore dei passanti e dello stesso Pitré, il quale ne esprime tutta l'ammirazione. Il Gulì fornisce le migliori famiglie dell'aristocrazia palermitana, che rinunziano via via ai loro monzù, i quali vengono ora assunti dalle pasticcerie più rinomate. In una ricevuta di pagamento, in data 11 ottobre 1876, indirizzata dal Gulì al principe Gangi, vengono elencate, fra l'altro, le «spolettine di pane di Spagna», un notevole quantitativo di «Dolci riposto». Mentre in un altro foglio, in data 14 gennaio 1885, sono elencate le «Olivette di pistacchio di caramella », simili a quelle che si sogliono preparare a Catania per la festa di S. Agata.
Un rinomato «confettiere» della fine dell'800, è il catanese Rosario Amato, che era solito aggiornarsi sia sulla produzione dolciaria che sulle novità nel campo delle più efficienti attrezzature del settore. II suo vasto assortimento, coi relativi prezzi, risulta da un elenco che questo dolciere usava inviare ai suoi clienti. In uno di questi fogli, diretto a un barone di Palazzolo Acreide, leggiamo, fra l'altro, i «Dolci di riposto assortiti», i «frutti canditi», «Rame di Napoli», «Frutti alla martorana assortiti», «Mustaccioli alla Napolitana», «Sussamiele alla sapienza», «Pasta reale cotta», «cassate», «Pasta di mandorle imitazioni frutti».
Una famiglia di dolcieri siracusani è quella dei Calcina, già attivi nella città aretusea dalla metà dell'800, a opera del capostipite Pietro. Dall'ultimo epigono, Angelo Calcina, che attualmente opera a Siracusa, ho avuto modo di osservare delle carte manoscritte, in cui sono tracciate le «dosi» (nel particolare linguaggio tecnico), che costituiscono una semplice traccia del complesso lavoro di manipolazione, perché ogni «dose» in realtà segna solitamente il quantitativo degli ingredienti che occorrono per la confezione, e raramente si danno delle indicazioni sui vari modi e momenti della manipolazione.
Queste «dosi» risalgono alla fine dell'800, come prova, fra l'altro, un foglio intestato della Ditta, coi caratteri tipografici scanditi nel gusto della belle époque: «Fratelli Calcina - Dolceria - Pasticceria - Sorbetteria - Cioccolata, Cioccolattine Calcina. Frutti canditi, Vini e Liquori». E all'estremità del foglio, sulla destra: «189...». Troviamo tra i vari dolci elencati le «Testi di turco», i «Quaresimali», i «cannola». Seguono poi degli appunti sul modo di dipingere la cosiddetta frutta marturana, che presumibilmente dovevano servire anche agli apprendisti.
Un avvenimento certo tra i più innovatori, in questa particolare temperie, è costituito dalla emigrazione degli svizzeri in Italia e in Sicilia in particolare, verso la fine dell'800, per una crisi economica che afflisse la repubblica elvetica. Il Klainguti si trasferisce a Genova e Cristiano Caflich va a Napoli e nel 1896 apre a Palermo la prima pasticceria svizzera. A Catania, il 16 dicembre 1914, Alessandro Caviezel e Ulirico Greuter aprono una pasticceria simile a quella palermitana di Caflich. Spesso questi emigrati svizzeri sono piuttosto degli imprenditori che si servono di manodopera anche tedesca, austriaca, innovando e, al contempo, tenendo attiva la produzione dolciaria tradizionale, dalla cassata alla pasta reale, ai cannoli, ecc..
Fra l'altro, nel 1895, il noto antiquario Vincenzo Daneu e il professore H. Ross, nativo di Danzica, che era stato vice direttore dell'Istituto botanico della capitale siciliana, crearono a Palermo una latteria per la sterilizzazione del latte e per la produzione del burro, allora pressoché sconosciuto, ma che veniva continuamente richiesto per il crescente flusso turistico, e che ora arricchisce di un importante elemento la dolceria locale.
Si moltiplicano le pubblicazioni di gastronomia, coi vari ricettari, e anche l'editoria siciliana s'inserisce in questo particolare fervore: uno di questi volumi, a esempio, appartenente alla biblioteca di un barone del Siracusano, pubblicato a Palermo nel 1857 dall'editore Decio Sandron, è intitolato Manuale del cuciniere Italiano particolarmente della Cucina Siciliana. Nel quinto capitolo in cui si tratta «Della manifattura dei Dolci », troviamo quelli che l'autore chiama « di credenza », e che sono i «Raffioletti», i «Mostaccioletti» e la «Pignolata».
Tra i conventi ancora attivi nella produzione dolciaria ricordiamo quello di Santo Spirito, detto la Badia grande, ad Agrigento, e quello della benedettine del SS. Rosario, a Palma di Montechiaro, producono ancora una raffinata dolceria, che di solito si incrementa in occasione delle maggiori festività e ricorrenze, come il natale, la pasqua, la commemorazione dei defunti, il santo patrono del luogo. Mentre le monache del Santo Spirito confezionano delle raffinate conchiglie di pasta reale, con formelle di legno, e uno squisitissimo cùscusu dolce, le benedettine di Palma preparano dei biscotti ricci di pasta di mandorla, che, dopo il successo del romanzo di Tomasi di Lampedusa, vengono chiamati dalle stesse suore i «biscotti del Gattopardo». Concludiamo col convento di S. Carlo, a Erice, dove troviamo gli interessanti mostaccioli con farina di Maiorca (grano tenero), mandorla abbrustolita e macinata, cannella e chiodi di garofano; ed il Monastero delle Benedettine di S. Michele a Mazara del Vallo con i rinomati bocconcini di cedro.

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