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Un viaggio nel cuore della meravigliosa Sicilia Barocca

Cultura | Vittoria Carmelo Chiaramonte: I vigneti siciliani e il fotovoltaico Uno scritto del cuciniere errante apparso su La Sicilia



Carmelo Chiaramonte
vigneti siciliani
fotovoltaico
Arianna Occhipinti

Vittoria - Il cuoco viaggiatore, qualche volta, quando può, per meglio capire come annaffiare il cibo che ama preparare, prende l'automobile e va. Mi trovo nelle terre di Vittoria, voglio sapere la faccia, le storie e il profumo delle terre dove nascono i vini lungimiranti di Arianna Occhipinti. In verità sono qui perché accompagno un esperto di vini che sta per scrivere un volume sui vini naturali del sud Italia e isole. I vini naturali sono un piccolissima costola nel mondo contemporaneo del vino mondiale e incuriosiscono molto il consumatore consapevole. Arianna è tra quei pochi produttori che in Sicilia hanno fatto questa scelta agricola.
Siamo in vigna, i due parlano di coltivazione bio-dinamica, fermentazione lunghe delle bucce, innesti, portamenti dell'alberello, potature, e mi allontano; il verde di queste vigne mi incuriosisce. La macchia mediterranea è la classica, tra selvatico e coltivato. I filari della vigna sono colmi di erbe infestanti, segno che non sono stati fatti trattamenti chimici. Annuso mirto e nepitella, scorgo ulivi, carrubi e le erbe basse di cardella, borragini, cicorie. Qualcuna di queste le raccoglierò perché ci fermeremo a pranzo da Arianna e voglio farci un'insalata bucolica.
Siamo in contrada Pettineo, da lontano si scorge a nord-est Chiaramonte Gulfi, mentre a sud ci sono Comiso e Vittoria. Sono le terre dell'unica docg siciliana, il Cerasuolo di Vittoria. Sono le contrade colme di vigne di cui ci ha raccontato a lungo il compianto colonnello Giuseppe Coria (ri- leggete il suo "Profumi di Sicilia", ed. Cavallotto). Qui sono nati vini che hanno dato il destro a Luigi Veronelli per scrivere lunghe pagine di prodotti eccelsi. E da qui nascono i nuovi vini di questa cara ragazza si blea che vuole imbottigliare soltanto succo d'uva in cui non vi sia traccia alcuna di osmosi inverse, fitofarmaci, anticrittogamici, tannini aggiunti e tutto quello che il legislatore autorizza a mettere in vigna e nel nettare, senza che vi sia obbligo di dichiarazione in etichetta. Ecco il Frappato ed il nero d'Avola vinificato in un modo così moderno e attento che senti solo frutta, nel bicchiere. Ecco il modo veramente antico di coltivare la campagna secondo il criterio di rispetto delle terre.
Col Frappato arrivano al naso bei profumi di mora e spezie scure o certe note di foglia d'ulivo. Il nero Calabrese, al solito, ha note più austere. Il primo si abbraccia bene ai piatti di verdure a foglia verde, dolci, con formaggi, nelle paste fresche e con certe carni bianche cotte alla brace. Sono bicchieri da affrontare pure la domenica pomeriggio, con una certe serenità, senza cibo, magari col camino acceso e una stanza infiammata da una conversazione piena di rimandi e di altrove. Il nero d'Avola di Arianna ha un sapore di pepe nero, un vago ricordo di rose rosse, profumo lieve di buccia di melograno e si propone per abbinamenti con le carni rosse stufate o brasate.
Ma in tutti questi assaggi mi colpisce un vino bianco, appena spillato dalla botte. I vini naturali bianchi hanno sempre un colore più scuro. Non sono filtrati e il succo dell'uva fermenta a lungo con le proprie bucce. Proprio lontani dallo standard commerciale che vuole vini trasparenti fino all'inverosimile chiarezza del nulla alcolico. Mi fa girare la testa questo bianco da uve Albanello che bevo. Un profumo da un'uva autoctona che ricorda i fiori di acacia, le mandorle crude e una traccia lontana di agrumi. Mi piace perché segna il recupero di un vitigno che nei decenni è stato abbandonato e che Arianna recupera per dare fiato a questa felicità che si può provare quando si ruba all'oblio un prodotto autoctono del territorio siciliano. E di fatti l'Albanello è un'uva diffusa solo in queste contrade, le stesse del Cerasuolo, altrove sconosciuta e rara. Nessun altro produttore la vinifica, in Trinacria.
Sono piccole cose i piaceri di gola, a volte, eppure rincuorano.Come incoraggiano e ti provocano smisuarata ammirazione i progetti di recupero di una cultura.
Tuttavia la nostra terra quando ti regala dolce con la mano destra con la manca ti spruzza addosso il suo peggior veleno. E nel finale del pomeriggio passato con questa ragazza di trentanni, la più giovane vignaiuola dell'isola, spunta fuori l'aneddoto recente di una masseria, proprio lì, vicina alle sue vigne. Un bel podere come i tanti che incoronano poggi e colline degli iblei. Voleva comprarlo, Arianna. Farne altre vigne e restaurare le case. Il prezzo? Inaccessibile.
Così l'epilogo triste. Una compagnia che investe nel foto-voltaico compra podere e terra. Ne farà 3 o 4 ettari di pannelli esposti a sud. Così mentre torno a casa, dopo una splendida scoperta e una giornata fantastica, ricca di suggestioni, mi mordo il labbro e vedo le mie care terre siciliane colme di pannelli, ovunque e comunque.
A volte i nomi sono dei segni. Contrada Pettineo. Nel cuore del Cerasuolo, in mezzo alle vigne più belle e pulite. I nodi passano al Pettine e spunta il Neo. Ma il giuoco di parole è amaro. Il futuro di questa regione è costellato di pannelli ecologici, brutti e ingombranti. Servono a darci nuove fonte di energia di cui noi non godremo. Non verranno tolti mai più e sotto non vi crescerà nulla. E nemmeno la provincia di Ragusa, riesce a stare fuori da questo gioco al massacro del territorio.
Prendo lo scorrimento che da Gulfi mi porta a Vizzini e penso che da ora in poi vorrei che il maestro Guccione non ci racconti più fiabe sullo splendido territorio ibleo e nemmeno i Sarnari e i Candiano. Tutti i giovani artisti prendano esempio: da adesso in poi ciò che è stato dipinto non ci sarà più. E se tutti gli artisti, scuola di Scicli inclusa, continueranno a raccontarci il paesaggio della Sicilia d'oriente colmo di carrubi e pietre di muro che ancora odorano di mani agricole, non faranno altro che sembrare dei patetici sognatori o dei veri ingannatori.
E dico a me, pensando al maestro d'immagini, Peppino Leone, che non c'è grandangolo che possa mettere a fuoco tutti i pannelli grigi che ci aggrediscono; solo il photshop ci aiuterà a mantenere alta l'immagine della nostra mancata dignità paesaggistica.
Adesso tutti gli appassionati del buon cibo di territorio dovremmo metterci il cuore in pace. Tra il muro a secco e la cicoria, splenderanno mille lasagne di vetro e acciaio che vanno in cerca di raggi di sole. A fianco della vacca modicana nascerà la microvegetazione siciliana del terzo millennio, all'ombra dei tetti fotovoltaici. Il pascolo ed il latte per il Caciocavallo avranno nuove sostanze minerali. Con buona pace per chi storcerà il muso di fronte a tanta bruttezza geometrica coricata sui prati della provincia babba.
E se a qualcuno non fosse ancora chiaro, tra la cucina e il territorio passa la stessa differenza che corre tra il succo di mammelle di mucca ed il cacio; l'uno conseguenza dell'altro. Ecco, invece, la cucina iblea che si configura nel terzo millennio.
Certo. Sì, è proprio così: abbiamo bisogno di risparmiare sulle produzioni di Co2. Per questo i nuovi pannelli fotovoltaici sono la culla della nuova civiltà. Noi che abbiamo tanto sole, non possiamo usare meno lampadine! Peccato che debbano stare un po' coricati verso il movimento solare, ci si potrebbero mettere delle belle tovaglie a quadretti e chiudere in cornice la famigliola iblea con il cestino di scacce, l'I-pod e una bottiglia di cerasuolo di Vittoria.
Io, per rivendicazione gastronomica, chiedo pubblicamente, a tutti i nostri cari amministratori di fare il possibile per fare addrizzare i pannelli. In modo orizzontale (posizione dei piedi a paletta, va bene come esempio?), così da poter ottimizzare lo spazio che ci rimane. Anzi se vi diamo fastidio diteci dove andare a fare le nostre passeggiate in cui i nostri occhi non verranno abbagliati da siffatta bellezza del terzo millennio.
E tornando ai nettari di Arianna, alcune sue etichette riportano il nome della strada che serpeggia intorno alle sue vigne, la Provinciale 68. Vi fa pensare a qualcosa questo numero?

Carmelo Chiaramonte

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