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Un viaggio nel cuore della meravigliosa Sicilia Barocca


Miti greci e architetture secentesche a Siracusa


Tramite due brevi ponti l’isola di Ortigia sta artigliata a quella che a sua volta, secondo una definizione di Gesualdo Bufalino, è «un’isola in un’isola», ovvero il sud-est siciliano di cui Siracusa è la «capitale» e della quale quella piccola isola bislunga, larga 500 metri e lunga un chilometro, è il centro storico e il cuore. Qui il matematico, fisico, inventore (Eureka!) Archimede, che vi nacque e ci visse nell’epoca in cui a dettar legge era la Magna Grecia, mise in scena anche il memorabile e spettacolare gioco di specchi riflettenti il sole che mandò a fuoco la flotta romana, senza tuttavia riuscire ad evitare la capitolazione dopo i titoli di coda.
Qui, secondo la leggenda, la ninfa Aretusa riemerse dopo una lunga traversata a nuoto attraverso l’Egeo per sfuggire dalle grinfie libidiche del dio-fiume Alfeo, aiutata dalla dea Artemide che la trasformò in fonte d’acqua dolce per depistare l’ostinato corteggiatore. Il quale però, arguto e rapace, non si scoraggiò, e trasformatosi in fiume, com’era nelle sue proprietà, scavò un letto sotto il mare per scorrere impetuoso fino a lei e rimescolare la sua acqua con quella dell’amata, infischiandosene di non essere corrisposto. Così neanche la leggenda, come la storia, ha un lieto fine. Ma la Fonte Aretusa, dove dissetò la sua flotta anche Horatio Nelson in viaggio verso l’Egitto dove l’attendeva Napoleone, il suo nemico più acerrimo, oggi ingentilita da papiri nel bacino e papere nella fontana, è il luogo cui principalmente Ortigia deve la sua nascita, che nei secoli ha più ispirato poeti e visionari (Virgilio, Pindaro e Ovidio, Gide, D’Annunzio e Quasimodo) e che ha il record delle inquadrature negli obiettivi fotografici del moderni turisti.
Piranha dal sorriso inquietante sguazzano nell’acquario tropicale artificiosamente creato di là dalla fonte tra gli alberi nei pressi dello specchio d’acqua potabile naturale. Vari caffè affacciati sulla piazza omonima e terrazza sopraelevata con vista sulla baia. E nella zona attorno passeggiate e struscio sul lungomare roccioso, dove ampie piattaforme di legno elegantemente arredate con sdraio imbottite rendono agevole la balneazione. Si sciama tra bar da un lato e yacht dall’altro puntando a nord verso il Porto
Grande, vasto e pacifico approdo di pescherecci e navi di linea. In direzione opposta, all’estremità meridionale, campeggia il Castello Maniace, imponente e massiccio baluardo difensivo fatto erigere da Federico II sullo sperone roccioso che sembra la prua di una nave, ultima propaggine dell’isola, quasi una protesi.
Ma è soprattutto nel suo interno, celato alla vista dal mare (dunque, «da fuori») che Ortigia conserva i suoi tesori più preziosi. Chiunque sia passato da qui, dai greci ai normanni agli arabi agli aragonesi, ha lasciato i suoi segni nell’architettura, anche se su tutto domina la ridondanza barocca. Sembrava un declino inesorabile quello iniziato nel secondo dopoguerra col progressivo abbandono di case e palazzi in favore di quelli nuovi che spuntavano sulla terraferma, al di là dei due ponti. Tutto sembrava ormai perduto, divorato dall’incuria e dal degrado, negli Anni 70/80. Poi, nei 90, una legge di finanziamento per chi si impegna in opere di ristrutturazione nel centro storico ha dato il via al salvataggio e la riqualifica.

Articolo di Roberto Duiz su http://viaggi.lastampa.it

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