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Un articolo di Giuseppe Traina
L’eredità morale e letteraria di Leonardo Sciascia


Il prof. Giuseppe Traina, dell'Università di Catania, ha donato a RagusaNews un articolo sulla attualità del pensiero di Leonardo Sciascia. Da un decennio, Traina è considerato uno dei più profondi conoscitori dell'opera sciasciana.
Siamo onorati dell'omaggio che ha voluto fare ai nostri lettori.

Le opere dell’“ultimo Sciascia”, quelle degli anni 1986-1989 - Porte aperte, Il cavaliere e la morte, Una storia semplice, Alfabeto pirandelliano ed altre ancora - evidenziano un’omogeneità ideologica e stilistica che si pone, con paradosso solo apparente, all’insegna della felicità, perché hanno certamente dato al loro autore – già malato della malattia che lo porterà alla morte - un’intensa felicità nello scriverle (e danno al lettore un’intensa gioia nella lettura). Per uno scrittore a fortissima vocazione morale come è Sciascia, anche un testo disperato come Il cavaliere e la morte può essere considerato un testo “felice” perché la “felicità” e la “gioia” di cui parliamo non coincidono certo con il facile divertimento.
«Non faccio niente senza gioia», diceva Leonardo Sciascia, citando Michel de Montaigne. E la sua “gioia” è la gratuità dell’agire e il rigore morale, il porsi di fronte ad ogni problema che la vita presenta come di fronte a una scelta morale e razionale. Di conseguenza, la “gioia” di Sciascia non smette di coincidere con l’arma della polemica, perché il nostro scrittore vede moltiplicarsi, intorno a sé, i segni della barbarie, del diritto calpestato, della giustizia seviziata. E dunque la “gioia” di Sciascia è anche il “candore” di Luigi Pirandello: è il proclamare quella verità che si sente vera, limpida, prescindendo dalla previsione delle conseguenze, da ogni pavido senso di opportunità e convenienza. E, infine, la “gioia” di Sciascia è anche la “leggerezza” di Alberto Savinio, il rifiuto del “profondismo”, la capacità di semplificare i nodi problematici che sono semplici anche quando altri - per non provare mai a scioglierli - preferiscono vederli come complicati.

Il cavaliere e la morte è, insieme, il testo più iperletterario e il testo più sincero di Sciascia; e dispiace che Italo Calvino non abbia fatto in tempo a leggerlo, lui che negli anni Sessanta rimproverava all’amico Sciascia di non scoprire mai abbastanza le ferite aperte nella sua interiorità più profonda. Il geloso pudore di Sciascia, un pudore che aveva una schietta radice manzoniana, la sua esplicita avversione per la confessione impudica alla Rousseau o anche per l’emersione letterarizzata di un sottosuolo coscienziale, alla Dostoevskij. Sono tutti elementi infallibilmente presenti nei suoi testi: e solo in Todo modo, in quel che di kafkiano c’è in quel memorabile romanzo, s’apriva qualche spiraglio che consentiva al lettore di intravedere privati travagli dell’autore.
Ma perché l’uomo Sciascia uscisse allo scoperto con tutto il suo carico di sofferenza, con le ulcerazioni rimosse di tutta una vita, ci volle l’esperienza atroce del dolore e della malattia, di cui Il cavaliere e la morte è testimonianza. E ad esso s’accompagna, come una variazione sul tema, Una storia semplice: narrazioni disposte in dittico perché raccontano due opposte imposture, il secondo di una storia che semplice non è, ma al potere come tale fa comodo contrabbandarla, il primo di una storia che invece è semplice, ma che il potere vuole contrabbandare per complicata.
Il cavaliere e la morte è anche, non dimentichiamolo, un romanzo di grande valore pamphlettistico, un’inflessibile denuncia di un complesso sistema di potere che è poi – per accenni molto significativi - il mondo di oggi, il mondo in cui il potere politico è totalmente succube del potere economico globalizzato. Che io sappia, Il cavaliere e la morte è, insieme a Le mosche del capitale di Paolo Volponi, l’unico romanzo italiano di fine Novecento che sveli le trasformazioni del sistema capitalistico in atto, la fine della società industriale in transito verso la cosiddetta società post-industriale.
Ma Il cavaliere e la morte è anche un’opera testamentaria che riassume tutti i temi della narrativa sciasciana: non poteva dunque mancare, accanto all’impostura del potere, anche il tema della pietà, originalmente declinata in toni insieme leopardiani e sabiani, finanche cristiani e forse specificamente protestanti, come recentemente ha sostenuto un finissimo interprete delle opere sciasciane come Antonio Di Grado.
Pietà verso se stessi, verso il proprio dolore, nella pietà verso il Vice, il più trasparente e autobiografico degli eroi di Sciascia. Ma, come in un prisma di luce, la pietà s’irradia dal Vice stesso verso gli altri: pietà per la Morte dell’incisione di Dürer, quindi pietà per la morte propria ed altrui (dell’amico Rieti, innanzitutto), e la “dilagante pietà che sentiva per tutti quelli che restavano”. E pietoso timore per il futuro dei bambini, futuro che vedrà, ancor peggio che l’abolizione dei libri prevista da Ray Bradbury in Fahrenheit 451, l’abolizione della Memoria. In questa prospettiva apocalittica ogni libro è una testimonianza preziosa, ancor più se, come Il cavaliere e la morte, contiene nella sua tessitura intertestuale tanti altri libri: e se, soprattutto, contiene un referto esistenziale di educazione alla morte che è del Vice, ma è anche di Sciascia.
Ma quali sono gli ingredienti di questo quasi medievale itinerario della mente verso la morte, di quest’ars moriendi che il Vice si costruisce rifiutando “i religiosi conforti della scienza”? Sono i sentimenti che umanamente questo poliziotto lascia emergere, quei sentimenti che non si potevano intravedere dietro le maschere severe del capitano Bellodi e dell’ispettore Rogas, i due poliziotti del Giorno della civetta e del Contesto che sono i parenti più stretti del Vice nella precedente narrativa di Sciascia: il Vice può dunque vivere i suoi ultimi giorni nell’umanistico esercizio dell’intelligenza, del buon senso, dell’ironia, del relativismo, del desiderio erotico e sensuale, della pietà di sé e degli altri, della memoria. Sfiorando il “cancello della preghiera, intravedendola come un giardino desolato, deserto”. Forte di questi “oboli”, il Vice si avvia incontro alla morte senza alcuna particolare baldanza; anzi, decide di morire pudicamente, in solitudine. Ma non ci riuscirà, perché il potere lo farà assassinare, dando poi pubblica, indecente ed ipocrita risonanza al suo assassinio.

Il potere mafioso, il potere tout court, non tollera che si riannodino i fili della memoria privata e di quella pubblica. Il potere vive nel presente e pretende di schiacciare l’uomo alla sua dimensione presente: in tale ottica distorta, la memoria è un vizio e i suoi ultimi custodi muoiono assassinati o resistono fragilmente appesi ai tormenti della dialisi, come il professor Franzò di Una storia semplice. Al quale il giovane brigadiere Lagandara è legato da un commovente rapporto simbolicamente filiale: Lagandara, che studia alle scuole serali e aspira a laurearsi, è affascinato dalla cultura, simboleggiata per lui dall’anziano professore che elegge a suo padre spirituale, e al quale chiede consiglio quando è convinto di avere scoperto la colpevolezza del commissario. La risposta di questo “padre spirituale” sarà un invito al dubbio.
Ma la “scelta del padre” più significativa, quasi sconvolgente per uno scrittore siciliano, è quella che fa il figlio di Roccella. Il giovane è un figlio dichiaratamente ostile alla madre, la quale ha lasciato il marito e, dopo la morte di quest'ultimo, fa capire al figlio di averlo concepito con un altro uomo: una circostanza che non avrebbe minimamente scalfito Candido Munafò ma che invece turba il giovane Roccella, che rivendica orgogliosamente il padre anagrafico ma non naturale come vero padre, come padre “scelto”, visto che “le madri non si possono scegliere, che io di certo non ti avrei scelto […] Ma i padri si scelgono: e io ho scelto Giorgio, l’ho amato, piango la sua morte. Era mio padre. Tu attribuisci troppa importanza al fatto di essere andata a letto con un altro; o con altri”. Un ragionamento che avrebbe potuto benissimo fare un personaggio di Pirandello, uno di quei loici stravaganti che si oppongono risolutamente al senso comune dilagante nei microcosmi che li soffocano. Loici ragionatori, sì, ma non tanto da non lasciare ampio spazio alle più scontrose e segrete ragioni del cuore.
Ed ecco che, anche tramite la riconciliazione con Pirandello, realizziamo quanto sia stato ingiusto, da parte di tanta critica, insistere così recisamente sul carattere “illuministico” dell’opera di Sciascia, se per “illuministico” dovessimo intendere un’attenzione esclusiva e fanatica alle ragioni della ragione, senza che si crei il minimo spazio all’ascolto delle ragioni del cuore. E sarebbe bastato leggere con attenzione Le parrocchie di Regalpetra per cogliere, dietro l’attenzione documentaria di certe pagine, la commozione autentica che scaturiva in Sciascia dal contatto quotidiano con le vittime dell’ingiustizia sociale: un’ingiustizia sociale che si riverberava atrocemente nel “privato” di quei bambini che guadagnavano faticosamente denari destinati ad essere investiti saggiamente nell’acquisto dei quaderni per la scuola, se prima però non venivano loro rubati da padri poveri ed alcolisti.
Dietro ogni pagina più esplicitamente “illuministica” di Sciascia c’è il suo rovescio, una dilagante pietà. Per l’atroce paura del confidente Parrineddu nel Giorno della civetta, per il dolore dell’avvocato Di Blasi torturato nel Consiglio d’Egitto, per l’imbarazzante dipendenza del professor Laurana dalla madre in A ciascuno il suo, per le ingiustizie subite dagli inquisiti innocenti del Contesto. E si veda come dietro l’intelligenza chiusa di Ettore Majorana ci siano inconfessabili traumi infantili. E come dietro il candore diaccio di Candido Munafò ci sia il libero e gioioso esercizio del desiderio sessuale. Come dietro la paurosa ignoranza superstiziosa di Caterina Medici (in La strega e il capitano) ci sia il suo sentimento offeso di donna brutta e rifiutata. Come dietro i silenzi meditabondi del “piccolo giudice” di Porte aperte ci sia anche il suo dolore rimosso di vedovo. Sciascia, questo illuminista nato nella terra della non-ragione, sapeva benissimo che la ragione non esauriva l’uomo, che non avrebbe potuto essere l’unica griglia ermeneutica utile per capire l’uomo. Era certo la più utile per smascherare gli inganni del potere, ma per capire l’uomo fino in fondo conveniva soffermarsi anche – per fare un altro esempio - sull’amore del Vice per un’antica edizione in carta paglierina dell’Isola del tesoro.

Leggere oggi Sciascia con passione vuol dire ripercorrere trent’anni di storia italiana ma essere sempre disposti a ritrovare, nella storia di due o tre secoli prima, le origini delle piaghe oggi più purulente. Vuol dire, soprattutto, ricevere dal “maestro di Regalpetra” una salutare lezione sulla necessità del dubbio, di un dubbio così sistematico che dubita pure di se stesso. Perché il nostro ci si svela come il tempo delle certezze facili, dei sondaggi ad alternativa secca. Un tempo piatto e veloce. Un tempo adatto a far emergere in superficie non il naturale e necessario, ma il superfluo più luccicante; non la semplicità ma la facilità.
Non c’è dubbio che sia questa la sua eredità più feconda: essere stato segno di contraddizione in un mondo che tendeva inesorabilmente all’omologazione. Ed essere stato ciò non nel segno dello scandalo esistenziale esibito, ma solo con la forza del pensiero e della ragione, mantenendo una discrezione comportamentale assoluta. Sto sottintendendo, ma lo esplicito subito, un confronto fra Sciascia e Pasolini, i cui nomi in Italia vengono assai di frequente evocati come quelli dei due intellettuali italiani che meglio hanno saputo interpretare le trasformazioni sociali e politiche degli anni Settanta e Ottanta. E temo che, in tal modo, si faccia torto a letterati come Calvino, Montale, Fortini, Ortese, Volponi, Parise, Primo Levi. Per restare solo all’ambito dei letterati, perché bisognerebbe forse ricordarsi della presenza intellettuale importantissima di artisti e studiosi come Fellini, Sylos Labini, Eco, Tullio Altan.
Come ognuno di questi intellettuali, Sciascia – da vivo – ha saputo “scegliersi” i suoi lettori: lettori suoi contemporanei, vivi e attivi ma in qualche modo anche plasmati da lui, dalla sua scrittura. Lettori che amano l’esattezza, non la pedanteria. Lettori che amano l’eleganza della scrittura, non il vacuo rimbombo delle parole. Lettori disposti a seguire anche la metafora più ardita o la criptocitazione più oscura, perché sanno che in fondo al cammino troveranno un grano di moralità non moralistica. Lettori che vengono condotti per mano, da Sciascia, alla conoscenza di altri scrittori. Lettori che s’affezionano ai protagonisti dei libri di Sciascia, ben sapendo che essi possono - da un momento all’altro - morire o uccidere, far perdere le proprie tracce o essere esiliati in partibus infidelium. Sempre disposti – come il capitano Bellodi - a “rompersi la testa” su un problema, mai, comunque, a vivacchiare pavidamente.
Lettori che forse si identificano nei personaggi di Sciascia: uomini ingenui o stanchi, dalla coscienza scheggiata dalle delusioni, ma anche schegge della coscienza delusa del loro autore. Che non possono essere mai interamente portavoce di uno scrittore che ha appreso da Pirandello, da Unamuno, da Borges, che l’immagine e la voce di sé come autore sono avvolte dalla nebbia ovvero sono riflesse nello specchio infranto del Novecento o, ancora, sono racchiuse nella Biblioteca di Babele.
Quelli “scelti” da Sciascia sono anche lettori disposti a contraddire il loro autore d’elezione. Per esempio, quando, nel Cavaliere e la morte, afferma che «la moneta del vivere ogni giorno perdeva di valore» e che «la vita intera era una specie di vacua euforia monetaria senza più alcun potere di acquisto». Io credo che il lettore di Sciascia, una volta ringraziato il suo autore per il suo vivificante pessimismo, per la lucidità con cui denuncia un pericolo così concreto, sappia anche che proprio nella denuncia può essere già insita la soluzione del problema: che cioè la lettura stessa può fare riacquistare valore alla vita. La lettura di un libro. O la contemplazione intelligente di un’incisione. O la decifrazione di un antico documento d’archivio. O il piacere di abbandonarsi ai tesori della memoria individuale e di difendere quelli della memoria collettiva.
Naturalmente, non tutto, purtroppo, è così semplice come ho voluto finora sostenere. E quello che ho detto è forse un’utopia. Ma è, credo, un’utopia genuinamente sciasciana. L’unica mite utopia che questo disincantato polemista ci abbia lasciato in eredità.


prof. Giuseppe Traina





Giuseppe Traina insegna Letteratura italiana presso la Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università di Catania, sede di Ragusa. Si è occupato di letteratura italiana, prevalentemente degli ultimi tre secoli. Ha pubblicato tre volumi su Leonardo Sciascia: La soluzione del cruciverba. Leonardo Sciascia tra esperienza del dolore e resistenza al Potere (Salvatore Sciascia Editore, 1994), Leonardo Sciascia (Bruno Mondadori, 1999), In un destino di verità. Ipotesi su Sciascia (La Vita Felice, 1999). In autunno ne pubblicherà un quarto, che raccoglie studi degli ultimi dieci anni. Ha inoltre pubblicato la monografia Vincenzo Consolo (Cadmo, 2001) e ha raccolto nel volume Le varianti dell’io. Intersezioni tra vita e finzione (Salarchi Immagini, 2008) studi sulla letteratura della reclusione, Da Ponte, Bini, d’Annunzio, Ortese, De Robertis, Brancati. Ha curato edizioni di d’Annunzio, De Roberto e Bufalino. Scrive su “L’Indice” e altre riviste.

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