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Un viaggio nel cuore della meravigliosa Sicilia Barocca

Nei giorni scorsi è scomparso a Scicli il professor Michele Cataudella, uomo di cultura appartenente alla prestigiosa famiglia che fu dell'illustre Quintino. Per tanti anni docente di lettere presso l'allora Liceo classico di Scicli. Era in pensione da anni, ma non rinunciava al suo modo di essere intellettuale e uomo di scrittura qui nella sua cara Scicli. Un uomo sereno e di grande intelligenza, come d'altra parte ci ha abituato la Famiglia di cui faceva parte. 

 

Questo è l’ultimo suo scritto   pubblicato sul “Giornale di Scicli”

 

Il tegolaio

La “cchianata ra crita” era, negli anni trenta-quaranta, la “mia” strada, quella strada, cioè, che percorrevo quotidianamente, solo o in compagnia di qualche mio familiare, specie nel periodo estivo, per scendere in paese e per risalire all’ Imbastita. Altro non era se non un viottolo, disagevole e sconnesso, percorribile solo in periodi di asciuttore, soprattutto di primavera o di estate, chè le piogge dell’autunno e dell’ inverno ne trasformavano il fondo in un giallastro ammasso viscoso, con una spiccata disposizione a trasformarsi in un amalgama pesantemente e irrimediabilmente appiccicaticcio. Era quel viottolo (oggi non esiste più, sommerso da edifici residenziali), che, inerpicandosi su per la parte cretacea dell’estremo lembo della collina della Croce, costituiva una scorciatoia della stradetta in terra battuta, che dalle ultime case del quartiere di San Giuseppe sale a immettersi nella provinciale per Sampieri, proprio nel punto in cui, fino a pochi anni fa, sorgeva il casotto di Gilio. Ai margini della stradetta c’era uno dei tanti cantieri da tegolaio - in quell’epoca ne esisteva un buon numero nel nostro territorio - una piccola fabbrica artigianale di laterizi a conduzione familiare: una casetta per l’abitazione, a strapiombo sul pendio delle curve di San Marco, uno spiazzo pianeggiante, una “conca” (una sorta di minuscola piscina rotonda del diametro di circa cinque o sei metri e della profondità di mezzo metro al più). Da un giorno all’ altro, passando per la stradetta, si potevano seguire le varie fasi della lavorazione.
La prima operazione era quella di frantumare e sbriciolare le zolle d’argilla, che erano state già in precedenza estratte dalle tante piccole cave che s’erano via via formate tutt’intorno al dorsale della collinetta. Era, questa, un’operazione piuttosto faticosa, a giudicare dai poderosi colpi di mazza che bisognava assestare su quell’ammasso informe di blocchi di varia dimensione per ridurlo in una miriade di minuti ciotoli verdastri, pronti a venire ammollati in acqua nella conca, per restarvi tutta la notte. Alle prime luci del giorno seguente si riprendeva il lavoro, ed era tempo, ormai, di intridere con sabbia di mare la massa melmosa e di impastarla amalgamandola a piedi nudi e con l’ausilio di un asinello, che, girando, vi affondava gli zoccoli, mostrandoli, quando li alzava alternativamente al passo, imbrattati di zàcchere gocciolanti e gelatinose.
Si concludeva così la fase preparatoria, e si poteva dar corso alla modellatura delle tegole: un operatore agguantava dalla conca una grossa manciata di quel viscido ammasso di argilla ammollata, un altro garzone la poggiava su uno stampo semitubolare dalla parte del lato convesso, per dava alla tegola la caratteristica conformazione concavo-convessa, facendola scivolare dal telaietto dentro il quale era stata adagiata e poi la esponeva al sole, liberandola dallo stampo e allineandola con le altre.
Finalmente le tegole, asciugatesi al sole, venivano accatastate per la cottura nella fornace, che sorgeva nei pressi del casolare, insieme con le anfore e con i vasi, sì, perchè il tegolaio produceva anche recipienti di varia forma e dimensione: bombole con la bocca stretta e ‘nziri con l’orlatura larga per l’acqua fresca da bere, quartare per l ‘approvvigionamento dell’acqua per uso domestico (chi non conosce l’aforisma siciliano ppi bucca ra quartara parra u ‘nziru, cioè “ i bambini spesso ripetono ciò che sentono dagli adulti ”? ); non solo, ma si dilettava anche a modellare delle graste di varia misura, e a istoiarvi disegni geometrici di buon effetto ornamentale, basse e tonde per le piante da appartamento, strette e oblunghe per le piantine da vivaio e perfino creava vasetti per i bouquets, da usare come soprammobili. Il tegolaio diventava così anche vasaio, e anche in questa sua attività lavorava in modo serio e dignitoso e neppure si sognava di incorrere in certe stranezze, come quelle descritte in questi versi del poeta greco Ghiannis Ritsos (1909 – 1990), che qui si propongono nella traduzione del neoellenista Tino Sangiglio:

IL VASAIO
Un giorno finì di preparare le brocche, i vasi, le pentole.
Gli rimaneva
ancora un po’ d’argilla. Modellò una donna. Con i seni
gonfi e turgidi. Tardò a rincasare.
La moglie brontolò. Non rispose. All’indomani
mise da parte più creta, e ancora di più il giorno seguente.
Tutta una vampata i suoi occhi. Seminudo, con una rossa
cintura alla cintola.
Con donne d’argilla giace tutta la notte. [...].
S’è tolta anche la rossa cintura. Nudo, completamente nudo.
Intorno a lui
le brocche vuote, le pentole vuote, i vasi vuoti
e le belle, cieche, donne sordomute con i seni
morsicati. 

 

 

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