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Un viaggio nel cuore della meravigliosa Sicilia Barocca

La Sicilia com'era :Antichi mestieri : Ricamatrici, Saponaro, Carrettiere, Maniscalco e Carradore, ecc.

Arti, mestieri e professioni del passato  


       Ricamatrici


       Il lavoro del ricamo, eseguito per l’allestimento della dote delle ragazze di famiglia od anche per commissioni delle signore più facoltose del paese, a secondo dell’estensione
del capo da ricamare, si svolgeva o con un “tilaru” (telaio) lungo, in cui
bisognava lavorare a quattro mani, o con uno più maneggevole formato da due
cerchi concentrici del diametro di 30 cm. circa, in cui veniva incastrato il
tessuto. I punti maggiormente eseguiti erano: (i così detti punti sfilati) il
400, il 500, il 700, il punto ad intaglio, il punto rodi, il punto croce, il
pittoresco, il punto norvegese. Ed accanto a questi punti impegnativi fiorirono
pure quelli ai ferri, con i quali si facevano calze e maglioni, e quelli ad
uncinetto, un piccolo ferro della lunghezza di 25 cm. circa e di diametro
variabile fino a 3 mm.,
con il quale il disegno si sublimava in arte con la produzione di bellissimi
copriletto matrimoniali, tende, centri da tavolo, tappeti e quanto di più
fantastico e suggestivo suggeriva l'inventiva.


       Ormai le figure delle ricamatrici sono quasi del tutto scomparse ma i loro lavori continuano a rappresentare ancora oggi un inestimabile patrimonio artistico e culturale a
testimonianza dell’ingegno e dell’operosità femminili per i quali la loro
notorietà ha varcato i confini territoriali contribuendo a scrivere una delle
pagine più belle nella storia dell'artigianato locale.


       Saponaro


       Accattivante anche se faticosa e poco remunerabile era la lavorazione per la produzione del sapone ottenuto utilizzando la “muria” (morchia, residuo dell’olio
d’oliva) che il saponaro comprava nel frantoio locale ed in quelli dei paesi
limitrofi o reperiva attraverso i “murialori” (commercianti che l’acquistavano
in giro per i paesi). La muria veniva raccolta e conservata negli “utra” (otri,
recipiente in pelle di capra) e poi lavorata con l’aggiunta di cenere (ottima
quella di scorza di mandorle) il cui alto contenuto di potassio dava origine al
processo dell’idrolisi alcalina degli acidi grassi. Il tutto veniva versato in
una “quarara” (recipiente tipico) e fatto bollire nell’apposita “fornacella”
(struttura o fornello in conci di tufo od in pietra lavica). Dopo cinque ore di
cottura il sapone che via via si formava, attraverso dei tubi collegati, si
riversava nelle vasche di raffreddamento da dove veniva rimosso e conservato in
recipienti di latta od in barili, pronto per essere messo in commercio. Il
sapone prodotto a Capaci veniva usato per lavare la biancheria ed era
prevalentemente di tipo molle e perciò veniva chiamato “trema-trema”. Il colore
verde era ottenuto con l’aggiunzione di “pale” (foglie di ficodindia) nella
prima fase di cottura.


       La figura del saponaro oggi è del tutto scomparsa, ma come per tutte le arti ed i mestieri desueti, essa resta a testimoniare il valore e l’impegno prodigati per lo sviluppo economico
e sociale della città, a memoria delle future generazioni.


      


 Carrettiere


       Il carrettiere era un trasportatore di merci varie che andavano dai prodotti
stagionali della campagna al materiale da costruzione, al
carbone, al concime.
Generalmente lavorava per conto di terzi (proprietari terrieri, commercianti e
costruttori); raramente in proprio. Godeva, però, della proprietà dei mezzi di
trasporto: carretto e cavallo. La forma di pagamento era quella a viaggio e la
retribuzione veniva pattuita in base al percorso da compiere ed al tipo di
trasporto. Il suo lavoro si svolgeva “stratuna stratuna” (sulle strade) ed i
luoghi di sosta erano i “funnachi”, strutture coperte ove albergare assieme
agli animali e ristorarsi con un “piattu 'i pasta agghiu e ogghiu” (pasta con
aglio ed olio, oggi molto apprezzata dalle buone forchette come “pasta alla
carrettiera”) o mangiare all’asciutto "pani cu cumpanaggiu” (pane con formaggio
e olive).


      La sosta nei fundaci costituiva Il momento più bello della giornata poichè, oltre a concedere un meritato riposo dalla fatica del duro lavoro, favoriva lo
scambio di esperienze e di informazioni utili ma rappresentava soprattutto
l’occasione propizia per dare libero sfogo alla gioia del canto che spesso
sfociava in gare spontanee e appassionate. I temi evocati erano quelli reali, ricchi di contenuti umani
e sociali, spesso pervasi da un fascino e da una sensibilità creativa
particolari, che inneggiavano alle gioie dell’amore e della vita od esprimevano
una intensa, struggente malinconia per il tempo che fugge.


       Ragione di incontro erano poi le fiere di bestiame e le feste paesane, religiose e non, dove essi
convenivano insieme alle famiglie con cavallo e carretto riccamente bardati e
dove certo si coglieva sempre il momento opportuno per intonare anche a più
voci le loro caratteristiche stornellate.
E non era raro ascoltare i loro canti
accompagnati dalle note arcaiche e vibranti del “marranzanu” (scacciapensieri)
o dal suono voluttuoso e avvolgente del “fiscaleddu” (flauto) e dal frenetico
tintinnio dei “tambureddi” (tamburelli) mentre il vibrare basso e profondo del
“bummulu” (anfora di terracotta variamente dipinta  che emette un suono
quando vi si soffia dentro) scandiva ritmicamente i tempi.
Occorre
aggiungere che l’appartenenza alla categoria era avvertita con molto orgoglio
poichè i carrettieri si consideravano profondi conoscitori della vita per le
esperienze acquisite nel corso dei loro viaggi, come sentita era pure la
distinzione tra “cacciari a misteri” (guidare il cavallo ad arte) e chi “caccia
a fumeri” (guida come un portatore di letame).


       Di questo mondo così riccamente articolato non rimane quasi più nulla poiché il passaggio ad un nuovo mezzo di trasporto, quello  motorizzato, è stato
naturale e senza soluzioni di continuità. Esso comunque è ormai parte
della nostra storia recente e, seppure comincia a presentarsi in maniera
frammentaria alla memoria di qualche anziano, ancora oggi conserva intatti i
suoi valori affettivi  nelle espressioni più caratteristiche della nostra
musica etnica.


       Maniscalco e Carradore


       Fortemente correlati a quello di carrettiere erano due altri mestieri : il
maniscalco e il carradore.


       Il primo attendeva all’attività di Fabbro nella sua attrezzatissima officina dalla lunga parete interamente adorna di tenaglie, lame, pinze e punteruoli
vari, ove, oltre a realizzare cancelli, inferriate e balconate dalle forme
molto belle e variegate od a costruire attrezzi per i contadini, esplicava
anche il lavoro di Maniscalco dedito a preparare, davanti alla scoppiettante
fucina, i ferri da applicare agli zoccoli dei cavalli ed i cerchi delle ruote
dei carri, forgiandoli sull’incudine ancora roventi con abili colpi del suo
pesante martello.


       Il secondo svolgeva il mestiere di Carradore, ovvero, con l’aiuto di pialle, asce, seghe e scalpelli modellava il legname e con sapiente maestria riparava i
raggi delle grandi ruote del carro o pazientemente ricostruiva e rendeva
funzionali telai, stanghe laterali e freni rudimentali che ne costituivano i
punti deboli.


       Mestieri ormai scomparsi con l’avvento di nuove tecnologie ma che hanno accompagnato a lungo un difficile periodo della nostra economia fino agli anni
’70 caratterizzando tuttavia in modo straordinario la grande vitalità del
nostro artigianato locale.


       Cordaio


       Anche “u curdaru” (il cordaio) come luogo di lavoro aveva la strada. Per lui, infatti, qualsiasi spazio andava bene purchè abbastanza esteso e poco
frequentato da consentire la stesura dei filati.: le lunghe vie strette ed
ombrose o le solitarie piazzole retrostanti le chiese. Le operazioni di filatura
erano il frutto di una grande maestrìa, acquisita in anni di esperienza, unita
ad una speciale abilità nel coordinare i movimenti delle mani e dei piedi.
L’attività nel suo complesso richiedeva la collaborazione esperta di più
persone che in fasi contemporanee più che successive eseguivano le operazioni
necessarie: la manovra a mano della ruota per imprimere movimento alle pulegge;
il bagno in vasche di pietra in cui venivano immerse le matasse delle filacce;
la lavorazione e la torsura delle corde stese ad una certa altezza da terra, la
stesura per asciugarle.


       Stagnino


       Un mestiere che tuttora resiste al tempo è quello dello “stagnataru” o "stagnaru" (stagnino), un artigiano che per l’esecuzione della sua
professione poteva contare su due luoghi: il laboratorio e le strade. Il lavoro
consisteva nella riparazione, mediante saldature a stagno, di vari tipi di
recipienti metallici: pentole, “quarare” (pentoloni), “quartare” (contenitori
d’acqua in lamiera) ma soprattutto suppellettili di rame sulle cui parti
interne stendeva un fitto strato di zinco che agiva da isolante contro le
sostanze tossiche rilasciate dal rame a contatto con gli alimenti. Gli arnesi
usati dallo stagnino erano: delle grosse forbici per tagliare le lamiere da
utilizzare per i rattoppi; un ferro con manico termoisolante da immergere nella
brace incandescente di un fornello per fondere lo stagno ed applicarlo nei
posti dove era necessario; delle barrette di una lega di stagno e piombo (per
le saldature dolci) e di una lega di zinco, rame e piombo (per le saldature più
forti); dei martelli di varie dimensioni per sagomare i rattoppi di lamiera.


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       Bottaio


       Il bottaio o “vuttaru” era uno di quei mestieri che venivano considerati privilegiati e di difficile esecuzione. Il lavoro veniva eseguito a mano e
consisteva nel sistemare delle listelle di legno, di preferenza di castagno o
rovere (per le botti che dovevano contenere vini o liquori pregiati).
Normalmente esse erano più larghe nella parte centrale e più strette alle
estremità e variavano in numero e dimensioni in funzione della capienza della
botte da costruire. Le listelle o toghe, perfettamente piallate, venivano
sistemate una ad una in una forma circolare al cui interno la fiamma di un
fornello sviluppava il vapore indispensabile per rendere il legno più duttile
ed elastico alla lavorazione e facilitare la necessaria curvatura delle doghe,
ma era essenziale anche per liberarle dalle sostanze tossiche del legno (il
tannino), facilmente trasferibili nel vino. Per completare il lavoro
occorrevano inoltre sei cerchi di ferro di diverse dimensioni e due coperchi o
“timpagni” di diametro perfettamente adeguato ai fori finali della botte. 
Era a questo punto che l’arte del bottaio si rivelava in tutta la sua magia:
nel far aderire le toghe l’una all’altra e nel tenerle unite con i cerchi
metallici fissati all’esterno con uno speciale attrezzo a forma di scalpello
smussato, senza l’aiuto di collanti. Il prodotto finito era a perfetta tenuta
stagna.


       Purtroppo la moderna tecnologia ed il ricorso massiccio a contenitori d’acciaio e di vetroresina hanno fatto scomparire il fascino di un mestiere così
pregevole e privilegiato. Ma come tale la figura del suo esecutore è parte
integrante della nostra esperienza storica pronta a ricordare alle future
generazioni l’alto valore tecnico ed il grande prestigio delle nostre più belle
tradizioni artigiane.


      


   

    


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