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Un viaggio nel cuore della meravigliosa Sicilia Barocca

Buone pratiche per ri-fare città. Tre esperienze italiane di sviluppo locale sostenibile per “Green St. Petersburg Open Festival”

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Le esperienze che voglio mostrarvi riguardano dei piccoli paesi italiani.

Sono esperienze “marginali” nel senso che riguardano dei luoghi fisicamente ai margini (pur se molto vicini) rispetto alle dorsali principali dello sviluppo urbano, economico, produttivo italiano. Ma sono esperienze centrali rispetto al possibile futuro del nostro paese, perché ognuna in modo diverso, propone un modello di recupero di “centralità” e capacità produttiva di questi luoghi, altrimenti caratterizzati da processi di abbandono e perdita di forma. Un modello di rigenerazione “ecologica” perché basata su un approccio dolce, sulla “cura” dell’esistente, sul restauro, filologico e conservativo o liberamente interpretativo, ma sempre senza aggiungere cubatura e recuperando il tessuto abitativo non solo in termini spaziali ma anche e soprattutto relazionali, innescando nuove dinamiche tra le persone che vivono quei luoghi. Sempre attraverso un processo di invenzione di nuove funzioni: turistico ricettive ma anche e soprattutto di produzione culturale, artigianale, artistica, gastronomica. Funzioni compatibili con la storia e la specificità dei luoghi e capaci di riportare la vita ed una economia locale.

In questo senso questi tre progetti imprenditoriali e curatoriali, rappresentano esempi di buone pratiche per ri-fare città e ri-pensare lo sviluppo del territorio: fermare il consumo di nuovo suolo, lavorare sull’esistente, sulla rigenerazione, innescare meccanismi di condivisione e partecipazione recuperando produzioni artigianali e saperi locali (dalla produzione del cibo, come la pasta fatta a mano, ai prodotti di bellezza, alle pratiche costruttive), sottraendo terreno all’abbandono, all’illegalità ed alla criminalità.

Tutti questi progetti riguardano infatti l’Italia meridionale, quel Sud che continua ad essere una parte fragile ma anche estremamente creativa del paese. Quel Sud povero ma ricco di cultura e di migliaia di anni di storia dell’abitare.

SEXTANTIO

La prima esperienza ha per protagonista il borgo medioevale di Santo Stefano di Sessanio, un paesino disteso sul dorso di una collina a 1.250 metri di altitudine, nel Parco nazionale del Gran Sasso, molto vicino all’Aquila.

Quando Daniele Kihlgren, giovane milanese laureato in filosofia, arrivò qui per la prima volta nel 1999 (con una solida dote in banca ma con un passato familiare particolarmente travagliato), vagabondando con la sua moto in giro per l’Abruzzo, il borgo si riconosceva da lontano grazie alla Torre Medicea. Dalla torre (crollata nel terremoto del 2009) la Signoria di Firenze controllava la via della lana verso il tavoliere delle Puglie, quando la pastorizia e la trasumanza erano fiorenti.

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In quel momento, le case di pietra, per la maggior parte abbandonate e diroccate, si vendevano per poche lire e Kihlgren cominciò a comprarle e a costruire la sua visione.

Quella di un recupero che avrebbe fatto proprio dell’integrità paesaggistica e del restauro filologico di ogni singola componente dell’abitare, la straordinaria attrattività di un nuovo tipo di albergo: un albergo diffuso tra le strade, le piazze e le case del borgo.

L’albergo oggi si chiama Sextantio, dall’antico toponimo del primo insediamento romano, ed ha contribuito a far salire i prezzi delle case tra i 4 e i 7 mila euro il metro quadrato.

L’idea di una conservazione radicale e della assoluta inedificabilità (che Kihlgren ha proposto come valore e come norme per l’agenda politica dell’amministrazione locale) sono alla base del progetto culturale di tutela e rivitalizzazione del patrimonio storico “minore” di cui l’Italia è ricca: di quel paesaggio costruito che non è nato da un progetto ma piuttosto dalle esigenze e dalle persone che lo hanno abitato e modificato nel tempo, nel corso di centinaia e centinaia di anni.

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«Inedificabilità significa rispettare l’esistente, usare solo materiali locali, non costruire nulla, non aggiungere nulla, non cambiare nulla, non aumentare le cubature, non modificare gli arredi, le aperture, al massimo riparare e adattare».

E’ così che una stalla è diventata la reception dell’albergo. Nelle camere il riscaldamento a pavimento corre sotto i sassi, il cotto o il legno originali. Le lenzuola sono quelle di lino fatte a mano, che le mamme ricamavano per i corredi matrimoniali delle figlie. I copriletti vengono dal telaio di una tessitrice assunta per questo lavoro. Nel ristorante si mangia a «chilometro zero». Liquori, tisane, prodotti di bellezza e biancheria sono prodotti dai laboratori artigianali che hanno riaperto nel borgo. E qui non c’è né televisore, né frigobar, né telefono. Uniche concessioni: la rete wireless per Internet, i bagni con i sanitari minimali di Philippe Starck.

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E il modello ha funzionato, Santo Stefano di Sessanio è risorto: non soltanto Kihlgren ha assunto 25 dipendenti e ha creato lavoro per altre 300 persone nell’indotto, ma in un’Italia nel pieno della crisi e nell’Abruzzo aquilano colpito dal terremoto del 2009, sulla scia del suo «albergo diffuso», nel paese sono nate ben 23 fra locande e bed and breakfast. Il tutto senza costruire un singolo metro quadrato ex-novo, invertendo quell’abbandono della montagna e quella scesa a valle alla ricerca del lavoro, che durava da quasi due secoli.

Tra l’Aquila, Ascoli e Chieti, Kihlgren ha comprato immobili in altri villaggi abbandonati – Frattura Vecchia, Serra, Rocca Calascio, Martese, Rocchetta al Volturno, Montebello al Sangro -. Un investimento complessivo di oltre 50 milioni di euro, in cerca di soci.

In Italia, il Paese della Storia per eccellenza, ci sono 2.000 borghi abbandonati e oltre 15.000 in disfacimento che hanno perso il 90 per cento della popolazione. Questo modello di recupero e di economia è ripetibile.

Al momento, oltre a Santo Stefano, Sexantio ha una seconda base a Matera, in Basilicata, nel borgo che rappresenta l’espressione paradigmatica del Patrimonio Storico Minore, squalificato negli anni ’50, con le sue grotte e chiese rupestri abitate nonostante la malaria e le precarie condizioni igieniche, come “vergogna d’Italia”, evidente espressione del sottosviluppo del Meridione.

Scriveva Carlo Levi nel suo Cristo si è fermato a Eboli (1945) a proposito dei Sassi di Matera:
“…Dentro quei buchi neri dalle pareti di terra vedevo i letti, le misere suppellettili, i cenci stesi, Sul pavimento erano sdraiati i cani, le pecore, le capre, i maiali. Ogni famiglia ha in genere una sola di quelle grotte per abitazione e ci dormono tutti insieme, uomini, donne, bambini, bestie… Di bambini ce n’era un’infinità… nudi o coperti di stracci… Ho visto dei bambini seduti sull’uscio delle case, nella sporcizia, al sole che scottava, con gli occhi semichiusi e le palpebre rosse e gonfie. Era il tracoma. Sapevo che ce n’era quaggiù: ma vederlo così nel sudiciume e nella miseria è un’altra cosa… E le mosche si posavano sugli occhi e quelli pareva che non le sentissero… coi visini grinzosi come dei vecchi e scheletrici per la fame: i capelli pieni di pidocchi e di croste… Le donne magre con dei lattanti denutriti e sporchi attaccati a dei seni vizzi… sembrava di essere in mezzo ad una città colpita dalla peste…”

Il capovolgimento della immagine dei Sassi da vergogna a ricchezza d’Italia si realizza soltanto verso la fine del secolo, soprattutto grazie agli studi di Pietro Laureano sulla eccezionalità di un habitat di origine preistorica. Un habitat, nel 1993 iscritto nelle liste del Patrimonio dell’Umanità UNESCO, dove la scarsezza di risorse (la mancanza d’acqua sopratutto) e le potenzialità del luogo, hanno dato vita a soluzioni abitative che sono tutt’uno con tecniche di scavo, costruzione e raccolta delle acque. Un sistema quello dei Sassi, talmente in sintonia con l’altopiano calcareo, da riuscire a utilizzare in modo combinato i diversi principi di produzione dell’acqua: la captazione, la percolazione e la condensazione.

E se dagli anni Novanta la Matera storica ha cominciato a ripopolarsi e rivalutarsi, l’anno scorso la città è stata designata capitale europea della cultura per il 2019.
In questa ricostruzione dell’identità culturale e materiale della città, Sexantio è un piccolo grande caso di successo.

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Dall’Abruzzo alla Puglia. San Vito dei Normanni è un comune di circa 20.000 abitanti a pochi chilometri dalla costa adriatica e pochi minuti di distanza in macchina da Brindisi.
Reperti archeologici attestano che la zona era abitata già durante l’età del bronzo (tra il primo e il secondo millennio avanti Cristo), ma la fondazione della città viene fatta risalire al normanno Boemondo d’Altavilla (1050 – 1111 d.c.), il quale, per assecondare il suo amore per la caccia, ordinò la costruzione della torre quadrata che ancora oggi caratterizza il centro del paese.

Il piccolo borgo crebbe sul finire del Medioevo quando molti coloni vi si trasferirono cercando riparo dagli attacchi dei Saraceni proprio nella presenza della torre normanna. Durante il Ventennio fascista il borgo conobbe un notevole sviluppo urbanistico con la costruzione di molti edifici importanti come la scuola elementare, la sede del municipio e il palazzo delle “poste italiane”.

Nei primi anni sessanta la speranza lavorativa del territorio si focalizza sulla nascente industria petrolchimica di Brindisi: in molti sperano che un passaggio dal lavoro nei campi alla catena di montaggio possa portare una qualità della vita migliore.

La maggiore industria chimica italiana infatti, la Montecatini (poi Montedison), approfittando dei forti incentivi previsti dallo Stato per gli interventi nel Mezzogiorno (soprattutto per risolvere le difficoltà finanziarie in cui si trova) avvia la costruzione a Brindisi dell’impianto Montecatini – Polymer. L’impianto produce materie plastiche: polipropilene, polietilene, elastomeri, polimeri per fibre sintetiche, aldeidi, alcoli, solventi organici, per complessivi 700.000 tonnellate all’anno di derivati dal petrolio.
La localizzazione a Brindisi è determinata dai vantaggi geografici: il petrolio greggio, la materia prima, arriva agevolmente dai Paesi Arabi attraverso il canale di Suez e, per l’esportazione dei prodotti finiti, il porto di Brindisi è proiettato verso i mercati potenziali del Medio Oriente, dell’est Europeo e del Nord Africa, per i quali a quel tempo si facevano previsioni di rapida crescita economica e commerciale.

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Le previsioni d’occupazione per l’impianto, che intanto occupa oltre 800 ettari di terreno pianeggiante (in parte agricolo), parlano di 15-18.000 addetti. A questo impiego diretto si aggiunge la convinzione che la presenza di un colosso della chimica possa generare un indotto di imprese capaci di lavorare e trasformare in prodotti ulteriori i materie di base.
Nel 1977 però una esplosione in uno dei reparti provoca danni in tutta la città e la morte di 3 persone. É l’inizio della parabola discendente. Non solo quel reparto non viene riaperto ma la progressiva crisi dell’azienda (la cui storia si intreccia alle vicende politiche italiane di quegli anni), determina l’inizio di un continuo ridimensionamento, sino alla chiusura definitiva nel 2000.

A Brindisi resta oggi un polo petrolchimico suddiviso in varie fabbriche che dà lavoro ad alcune migliaia di dipendenti. E restano, della Montecatini, una amplissima area da bonificare, ricca di sostanze altamente inquinanti e poco identificate, oltre al diffuso inquinamento del suolo, del mare, delle spiagge e delle falde su un’area molto più vasta del confine della stessa fabbrica.

Tornando a San Vito, concluso il periodo di un sogno occupazionale legato alla industrializzazione pesante, il paese punta oggi sul turismo e sullo sviluppo e la commercializzazione di prodotti locali di qualità. In questo quadro, nel contesto di un territorio bellissimo ma fortemente violato, in cui un orizzonte di sostenibilità ambientale e sociale è tutto da ricostruire, nasce l’esperienza ExFadda Officina del Sapere.

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La storia comincia nel 2010 quando la società di comunicazione under 40 Sandei, vince 60 mila euro (attraverso il bando regionale per le politiche giovanili Bollenti Spiriti) per riqualificare uno stabilimento enologico del primo Novecento, l’opificio Dentice di Frasso. Lo stabilimento, articolato in tre corpi di fabbrica per 3.000 mq coperti (con meravigliose volte a spigolo e capriate in legno) e 15.000 mq di area esterna recintata, è stato per anni utilizzato dal comune come deposito dei mezzi della nettezza urbana.

Il cantiere diventa una occasione per stabilire legami di collaborazione con il territorio: associazioni, imprese, cittadini, falegnami, designer, architetti, tutti possono partecipare in modo volontario. E dopo quattro anni, ex Fadda è un piccolo miracolo. C’è un centro ludico per la prima infanzia, una falegnameria, una scuola di musica, un collettivo fotografico, una libreria, un bar, una radio. C’è XLive, lo spazio all’aperto che i ragazzi affittano per i concerti e le feste. C’è XFood, ristorante sociale a km 0, che impiega sedici ragazzi disabili in sala, in cucina e nella gestione dell’orto biologico. Sono stati selezionati con avviso pubblico, formati e avviati attraverso il programma regionale di job coaching destinato alle persone svantaggiate.

Roberto Covolo è uno dei fondatori di Ex Fadda: “In questo momento utilizziamo circa 2.000 mq della struttura: li abbiamo resi fruibili attraverso un cantiere di auto-costruzione in cui abbiamo coinvolto designer e architetti di tutt’Italia, insieme a volontari locali. Ad ispirare il cantiere sono state le pratiche del recupero dei materiali, della sperimentazione di architetture con materiali naturali, della partecipazione diffusa alla riqualificazione. Gli spazi sono dedicati a uffici, laboratori, aule, sala prove, gallerie di esposizione, spazi per le performance. È uno spazio modulare, un posto così flessibile da poter essere, al tempo stesso, uno spazio per concerti e una palestra, un laboratorio di ricerca e una galleria d’arte”.
Il progetto “ExFadda”, ha continuato Roberto, “è basato su meccanismi di carattere comunitario: non vogliamo concepirci come uno spazio che eroga servizi, quanto piuttosto come un luogo in cui costruire relazioni tra le persone e i progetti e creare opportunità. Ospitiamo progetti e aziende che lavorano assieme, ma abbiamo un concetto differente rispetto al co-working tradizionale. Il nostro obiettivo non è “affittare scrivanie”: noi vogliamo condividere idee. Lasciamo che siano le persone stesse a stabilire quanto “vale” la loro presenza all’interno di ExFadda. In pratica, siamo qualcosa a metà tra uno spazio di co-working, un incubatore di idee e uno spazio sociale”.

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Ex Fadda è un laboratorio di costruzione, “un luogo d’innovazione sociale dove si condividono idee, strumenti, difficoltà e competenze”, dicono i ragazzi che lo gestiscono. Chi vuole chiede uno spazio, paga l’affitto se può, e se non può contribuisce alla manutenzione, e intanto avvia la sua piccola attività imprenditoriale e prova a costruirsi il futuro che s’immagina.

Questo metodo ha portato per il 2013 la copertura di circa un terzo dei fabbisogni delle spese, un terzo è coperto dalle attività commerciali interne alla struttura (bar, asilo privato, eventi estivi, affitto spazio eventi privati), un terzo è coperto da finanziamenti pubblici. Il budget ammonta a 120.000 euro, di cui 80/90.000 vengono coperte da risorse generate dalla struttura dando lavoro sino a 10 persone in estate.

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Andando ancora più a sud, Favara è un piccolo comune con circa 30 mila abitanti a meno di 10 km di distanza da Agrigento in Sicilia. Si tratta di un centro molto antico, abitato sin dall’età del rame (2500 2000 a.c.), in età storica diventato città greca e successivamente arabo normanna (il castello Chiaramonte fu costruito nel 1270 come residenza di Federico II di Svevia).

Nel 2010 un evento tragico segna la vita della città: muoiono due bambine nel crollo di una palazzina del centro storico.

Da anni il notaio Andrea Bartoli e sua moglie l’avvocato Florinda Saieva, già collezionisti d’arte, sognavano di provare a usare l’arte per far nascere in Sicilia qualcosa che potesse fermare l’abbandono e innescare un processo virtuoso di rigenerazione. “Questo fatto ha accelerato il processo di realizzazione del nostro progetto. A quel tempo ci trovavamo all’estero e su Favara si cominciò a concentrare una grande attenzione mediatica. L’amministrazione, allora, decise di buttare giù le case del centro storico e di costruirne uno nuovo. Noi ci siamo precipitati e da allora abbiamo cominciato a ristrutturare piano piano le case del centro storico come spazi culturali da restituire alla città e lo abbiamo fatto soprattutto per ridare speranza agli abitanti di Favara.”

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Nasce così Favara Cultural Farm: “una piccola Comunità impegnata ad inventare nuovi modi di pensare, abitare e vivere”.

L’obiettivo è quello di recuperare tutto il centro storico di Favara e trasformare il paese nella seconda attrazione turistica della provincia di Agrigento dopo la Valle dei Templi. Al momento è composto da un aggregato costituito da sette piccoli cortili circondati da palazzi nel centro storico di matrice araba della città. Le attività consistono in mostre temporanee e permanenti, residenze per artisti, workshop, presentazioni di libri, concorsi di Architettura e molto altro.

Farm al momento è un’istituzione culturale privata, impegnata in un progetto di utilità sociale, ma il sogno è di trasformarla in una fondazione di comunità. “Tanta gente viene a visitarci da fuori, tante persone si innamorano di questo posto e comprano delle case a bassissimo prezzo che poi piano piano ristrutturano e entrano a far parte della comunità…. Ciò che è stato fatto è stato fatto senza fondi pubblici… Abbiamo investito noi e chi ci ha creduto. Oggi la sfida è trasformare questa comunità attorno a FARM in una comunità che genera valore e che possa essere sostenibile. Stiamo ragionando sui modelli organizzativi e giuridici, per esempio sul modello Fondazione di Comunità”.

Una fondazione di comunità è un ente no profit, che mette insieme i soggetti rappresentativi di una comunità locale (cittadini, istituzioni, associazioni, operatori economici e sociali) con l’obiettivo di migliorare la qualità della vita della comunità stessa, attivando energie e risorse e promuovendo la cultura della solidarietà e della responsabilità sociale. La principale peculiarità di questo tipo di fondazione è la possibilità per una collettività di investire nel proprio sviluppo e nelle sue qualità, attivando risorse proprie per realizzare progetti ed interventi per il territorio. La Fondazione di Comunità, grazie alla capacità di attrarre risorse, sotto forma di donazioni e altre liberalità, valorizzarle attraverso una attenta gestione patrimoniale e di investirle in progetti locali di carattere sociale, rappresenta un importante strumento di sussidiarietà, cioè di risposta ai bisogni dal basso, in modo periferico piuttosto che attraverso un’amministrazione centrale, riducendo gli sprechi, l’inefficienza, l’assistenzialismo.

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Tra Luglio e Settembre 2014, Farm ha fatto affluire a Favara circa 25.000 turisti da tutto il mondo, dando nuova vita alla città, nuovi sbocchi lavorativi e nuovi spazi giovanili.

In questo momento (primi di giugno 2015) Farm sta ospitando la diciassettesima edizione del Compasso Volante organizzata dal Politecnico di Milano, in collaborazione con The University of Tokyo e la Japan Women’s University. Il tema di questa edizione sarà la ristrutturazione di Palazzo Giglia, splendido palazzo nobiliare abbandonato nel centro storico di Favara. La progettazione sarà focalizzata al riutilizzo delle parti esterne del palazzo con la creazione di una sorta di piazza pubblica, per poter ospitare eventi culturali e musicali, la realizzazione di un grande spazio di coworking e di incubazione per start up, una area destinata all’agricoltura urbana con relativo ristorantino a km 0 e un piccolo ostello per l’ospitalità di studenti e creativi. L’obiettivo è quello di creare uno spazio in cui arte e food ben miscelati possano essere attrattivi per persone di tutte le età.

Questo 27 giugno Farm festeggerà i suoi 5 anni di vita con una grande festa intitolata “Solo per gente comune”.

I Sette Cortili accoglieranno “Stripes”, una mega installazione bianco-nera optical di Make e ospiteranno la mostra fotografica di Stefano Ginestroni, pubblicitario che ha reso famoso un marchio di fast fashion con “gente comune”, una serie di campagne dalla forte connotazione polita e sociale. Ed ancora la grande installazione luminosa interattiva per trovare l’amore “Potrei amare il mondo intero” di Sergio Cascavilla; “Make art not war”, il reportage fotografico della Comunità Officina del fotografo Paolo Galletta; le opere, installazioni e performance sul tema della crisi del collettivo di creativi Dimora OZ.

Inoltre, Ancora “War Dance” la video installazione dell’artista israeliana Inbal Shirin Anlen; l’installazione fotografica tratta dal reportage Faces of Japan di Roselena Ramistella; il pungente lavoro installativo che indaga concetti di appartenenza e di identità culturale di Barbara Cammarata; l’opera pittorica di Paolo Amico; “8 million steps” lo straordinario lavoro video che racconta il progetto di Juraj Horniak che partendo dal sud della Spagna a piedi per arrivare in Turchia sta raccogliendo le più belle storie di tradizione e innovazione del Mediterraneo. Se qualcuno volesse comprare qualcosa, per ricordare una serata straordinaria, potrà farlo presso 7 SHOP, il tempio del vintage e dell’handmade curato da Nadia e Rino che per l’occasione presenteranno i progetti FARM di co-branding con Moak, Improntabarre e Chioccioline Lab.

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Infine (ma in realtà c’è molto altro!), “Oltre la linea”, una videoistallazione di Mosaicoon, azienda siciliana premiata in tutto il mondo per la sua innovatività grazie ad un sistema unico per la gestione integrata del video online. Mosaicoon dà il suo contributo al Farm Cultural Park in una rivisitazione del concetto di orizzonte, inteso come metafora di esplorazione e linea immaginifica di congiunzione tra gli obiettivi e la visione delle due realtà siciliane. ”Oltre la linea” è un tributo alla “visione”, alla scoperta e alla capacità di superare i propri limiti.

Chi avrà passato una bella serata potrà inoltre aiutare Farm nella sfida delle sfide: raccogliere un milione di euro per completare i lavori di ristrutturazione di Palazzo Miccichè e aprire un vero Children’s Museum: un luogo per il futuro, dove i bambini di tutte le età, potranno giocare, sognare e imparare a costruire un mondo migliore di quello che gli stiamo consegnando.

Il pdf con le immagini:

28giugno2015

malupa@libero.it

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